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Accreditamento sanitario: il privato accreditato può impugnare la determina del budget una volta sottoscritto il contratto con l’Amministrazione sanitaria?

15/06/2023
Cons. Stato, Sez. III, nr. 4715, pubblicata il 10/05/2023

La pronuncia in esame si inserisce in quell’orientamento giurisprudenziale che ammette la legittimità della c.d. “clausola di salvaguardia” all’interno degli accordi contrattuali stipulati tra Azienda Sanitaria ed erogatore privato, ossia di quella clausola contrattuale che implica l’accettazione completa e incondizionata del budget assegnato, nonché la conseguente rinuncia ai contenziosi instaurabili contri i provvedimenti già adottatati e conoscibili.

Ciò significa che la sottoscrizione della clausola di salvaguardia da parte dell’erogatore accreditato determina come conseguenza la perdita della legittimazione a impugnare gli atti di determinazione dei tetti di spesa che lo riguardano.

Per comprendere meglio le motivazioni sottese a una quella che può comunque considerarsi una limitazione della tutela giurisdizionale, si riporta brevemente la vicenda giudiziaria.

Una Casa di Cura privata in regime di accreditamento impugnava davanti al Tar Campania il Decreto del commissario ad acta della Regione Campania in Piano di Rientro riguardante la definizione per gli esercizi 2016 e 2017 dei limiti di spesa e i relativi contratti con gli erogatori privati, comprensivi questi della c.d. clausola di salvaguardia.

Il T.A.R. Campania, con la sentenza n. 2752 del 27 aprile 2021, rigettava il ricorso avendo ritenuta legittima la “clausola di savalguardia” del modello di contratto, allegato al Decreto impugnato e con il quale le strutture sanitarie aderenti rinunciavano a contestare i provvedimenti di fissazione dei tetti di spesa e delle tariffe.

La Casa di Cura proponeva così appello, rimarcando sostanzialmente un mancato adeguamento del budget, in allegata assenza delle specifiche cause indicate nel menzionato Decreto, che solo avrebbero potuto giustificare la contestata decurtazione subita del tetto di spesa, tanto più che la chiusura di una casa di cura “concorrente” avrebbe, al contrario, dovuto comportare l’attribuzione di un budget aggiuntivo in favore della appellante.

I Giudici di Palazzo Spada respingevano l’appello confermando la sentenza di primo grado e rimarcando il principio per cui “il soggetto accreditato che sottoscrive il contratto ex art. 8-quinquies, D.Lgs. n. 502/1992, accetta incondizionatamente il budget assegnato”.

Viene posto in evidenza, infatti, che il privato accreditato, con la stipula dell’ accordo contrattuale che permette di erogare prestazioni sanitarie nell’interesse e per conto del SSN, manifesta inequivocabilmente di rinunciare alla posizione giuridica (asseritamente) lesa del provvedimento, privandosi sul piano processuale al proprio diritto a ricorrere.

Secondo i Giudici, è necessario tener presente che gli erogatori privati se intenzionati a contrattualizzarsi con l’Azienda Sanitaria, al pari delle strutture sanitarie pubbliche, concorrono a garantire l’interesse pubblico del diritto alla salute e perciò tanto non possono considerarsi estranei ai vincoli oggettivi e alle esigenze, per lo più finanziarie, a cui le Amministrazioni sono obbligate (come, nel caso di specie, il Piano di Rientro della Regione Campania).

Più esattamente, “chi intende operare nell’ambito della sanità pubblica deve accettare i limiti in cui la stessa è costretta, dovendo comunque e in primo luogo assicurare, pur in presenza di restrizioni finanziare, beni costituzionali di valore quali i livelli essenziali relativi al diritto alla salute. In alternativa, agli operatori resta la scelta di agire come privati nel privato”.

Ed è in tale scenario che si inserisce e si legittima la clausola di salvaguardia finalizzata a precludere l’iniziativa impugnatoria, laddove il soggetto pregiudicato dal provvedimento ponga in essere in atti o comportamenti che dimostrino la volontà di accettarne gli effetti e l’operatività.

Sul punto va richiamato il principio sancito dalla Corte Costituzionale, secondo cui il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 della Costituzione può essere limitato purché vi sia un interesse pubblico riconoscibile come preminente sullo stesso (sentenza n. 238 del 2014).

Ciò è quanto si rilevava nel caso in esame, dal momento che “non può essere negata l’esistenza di tale interesse pubblico preminente in una Regione in Piano di Rientro, in quanto la clausola di salvaguardia è stata prevista per assicurare, in un periodo di stringenti restrizioni finanziarie, il controllo della spesa sanitaria”.

La Parte pubblica, infatti, in difetto di una valida e incondizionata accettazione della clausola di salvaguardia non avrebbe interesse alla conclusione del contratto, non potendo essa programmare efficacemente la spesa sanitaria, stante la permanenza e il continuo rischio di contestazioni giudiziali sui tetti di spessi.

A corroborare quanto sopra, il Consiglio di Stato chiarisce altresì che eventuali clausole apposte dai contraenti privati con cui dichiarano di sottoscrivere i contratti al solo scopo di non incorrere nella sospensione del rapporto di accreditamento ma riservandosi tuttavia ogni più ampia tutela, se non contemplate nel modello contrattuale, “sono da considerarsi come non apposti e come tali...non idonei a impedire la formazione dell’accordo”.

D’altronde, concludono i Giudici, la clausola di salvaguardia non comprime indebitamente il diritto di agire in giudizio, dal momento che il privato può decidere di non accettare la clausola e non sottoscrivere il contratto, fermo restando che anche sottoscrivendo la clausola manterrebbe comunque inalterato il diritto di adire l’Amministrazione in giudizio in relazione alle eventuali sopravvenienze erogate.

Alla luce di quanto sopra, è tuttavia legittimo chiedersi se, oggi, il privato accreditato conservi effettivamente la libertà di non collaborare con la Pubblica Amministrazione.