Corte App. Roma, II sez., 12/10/2023, nr. 6532
Fare l’hosting provider non è una passeggiata!
Lo si desume da quanto affermato dalla Corte d’Appello di Roma che, con la recentissima sentenza n. 6532/2023 del 12 ottobre 2023, ha cristallizzato l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia di responsabilità dell’hosting provider.
È tema di grande interesse quello della responsabilità dell’hosting provider. Negli ultimi anni ed a velocità estrema, l’uso di piattaforme digitali e di condivisione di contenuti è divenuta pratica quotidiana, non più prerogativa delle sole società dell’informazione, ma della collettività. Basti anche pensare ai contenuti diffusi tramite i social network o alle piattaforme che si pongono come tramite tra domanda e offerta, non ultime quelle per la prenotazione di visite mediche, appuntamenti, ecc. Il ricorso sfrenato alla condivisione, tuttavia, rischia di rimanere (e, se già non lo è, di diventare) un fenomeno incontrollato e incontrollabile che necessita di essere disciplinato, aggiornando e coordinando la regolamentazione vigente sugli aspetti direttamente o indirettamente connessi all’attività dell’hosting provider (non ultimo il GDPR, se si pensa che spesso il controvalore della gratuità del servizio offerto dal provider si “paga” con la disponibilità dei dati personali degli utenti).
Per tale ragione, il legislatore europeo ha emanato il Regolamento (UE) 2022/2065, noto come Digital Services Act (DSA), contenente la disciplina sulla trasparenza e responsabilità delle piattaforme digitali, a tutela non solo del consumatore ma anche dell’imprenditore (per un approfondimento sul tema si veda il nostro articolo "Digital Services Act: quali effetti sulla proprietà intellettuale?").
Tuttavia, il DSA sarà applicabile nei Paesi dell’Unione solo a partire dal 17 febbraio 2024.
Medio tempore, dunque, quando un hosting provider è responsabile per l’illiceità dei contenuti pubblicati dagli utenti nei propri spazi virtuali? Come si determina tale responsabilità? Domande tutte alle quale risponde esaustivamente la Corte d’Appello di Roma con la sentenza qui in commento.
La Corte d’Appello di Roma si è infatti trovata dirimere una controversia sorta tra una nota società dell’informazione nel panorama italiano e una società titolare di una piattaforma di condivisione di contenuti di audiovisivi. In particolare, il giudizio nasceva dall’impugnazione da parte della piattaforma digitale della sentenza n. 14760/2019 del Tribunale di Roma che aveva dichiarato e, quindi, riconosciuto la responsabilità del titolare della piattaforma per aver illecitamente diffuso e mantenuto in rete innumerevoli brani audiovisivi, in violazione della normativa in materia di diritto d’autore prevista dalla L. n. 633/1941 (c.d. “LDA”).
Senza voler entrare nel dettaglio delle domande, argomentazioni e difese svolte dalle parti, basti considerare che la questione sostanziale riguardava, in entrambi i gradi di giudizio, la qualificazione della società titolare della piattaforma come hosting provider attivo (cioè in grado di interferire sul processo di diffusione dei contenuti), ovvero passivo (vale a dire quale mero e “asettico” ospite dei contenuti). Difatti, diversamente dal caso dell’hosting attivo, in quest’ultimo caso si sarebbe potuta/dovuta applicare la disciplina sull’esenzione di responsabilità prevista dall’art. 16 del D.Lgs. n. 70/2003 e dall’art. 14 della Direttiva 31/2000/CE (entrambi in materia i servizi della società dell’informazione).
Per comprendere il ragionamento della Corte d’Appello che si analizzerà appresso, pare opportuno soffermarsi sulle modalità di esercizio della piattaforma, come emerse dal giudizio di primo grado.
La piattaforma telematica in questione, accessibile tramite web, consentiva agli utenti, previa registrazione obbligatoria, di pubblicare contenuti audiovisivi, memorizzati permanentemente su server collegati tramite banner ad annunci pubblicitari. Le condizioni del servizio, cui aderivano gli utenti mediante la registrazione, prevedevano:
- la garanzia alla piattaforma di una licenza limitata, non esclusiva, gratuita, nonché il diritto di effettuare copie, trasmette, distribuire, eseguire, mostrare pubblicamente e creare opere derivate dal contenuto pubblicato;
- il divieto di caricamento di contenuti lesivi del diritto di terzi, compreso quello d’autore, con possibilità per l’host di esaminare i contenuti e rimuovere quelli in violazione del suddetto divieto.
Successivamente, il caricamento (c.d. upload) dei contenuti avveniva da parte degli utenti, ai quali era consentito di aggiungere titoli, descrizioni o parole chiave, queste ultime utilizzate allo scopo di consentire ad altri utenti di cercare video, canali, gruppo, svolgere ricerche avanzate. Ciò si rendeva possibile grazie alla concessione da parte della piattaforma a motori di ricerca esterni di indicizzare le pagine web pubblicamente disponibili.
Tale attività di indicizzazione si estrinsecava, non solo con l’associazione dei contenuti caricati a video correlati, ma anche a link o messaggi pubblicitari, possibile grazie alla trasmissione da parte della piattaforma al motore di ricerca esterno delle “stringhe” di ricerca inserite dagli utenti.
Gli utenti, invece, si distinguevano in:
- coloro che caricano contenuti, che possono utilizzare la piattaforma sia gratuitamente sia a pagamento (in questo caso, gli account “Plus, Pro e Business” offrono progressivamente servizi aggiuntivi ad un maggior costo);
- coloro che visionano i contenuti, anch’essi gratuitamente o a pagamento (in caso di video inseriti con tale finalità da utenti Pro e Business).
Alla luce di tale quadro fattuale, il compito del giudicante era, dunque, quello di verificare se e in quale misura l’inserimento nella piattaforma di contenuti coperti da diritto d’autore sia stato oggetto o meno di interferenze manipolative da parte della piattaforma stessa.
In considerazione del funzionamento della piattaforma e, soprattutto, delle modalità di ricerca dei video consentite agli utenti, la suddetta verifica, svolta dapprima dal Tribunale di Roma poi dalla Corte d’Appello di Roma, ha condotto verso la qualificazione nei due gradi di giudizio della società titolare della piattaforma come hosting attivo.
E ciò adottando criteri valutativi già enunciati dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale concorrono a qualificare come “attivo” l’hosting provider che svolge “attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operante mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l’adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentare la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza l’effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti indeterminati” (Cass. civ. n. 7708/2019).
All’attività di indicizzazione, di per se idonea a caratterizzare la funzione attiva dell’hosting provider, la Corte d’Appello aggiunge quella di profilazione dei dati, facendo proprio un altro pilastro saldamente costruito dalla giurisprudenza di legittimità. Pilastro secondo il quale, oggi, il riordino e la selezione dei contenuti costituiscono il cuore pulsante dell’attività economica di un hosting provider (ergo la sua fonte di guadagno), grazie ai sistemi di data mining e di elaborazione massiva di big data. Sostanzialmente “attraverso complessi sistemi di profilazione dell’utenza, gli operatori hanno la capacità di intercettare le preferenze dell’utenza, in modo da variare l’offerta dei contenuti a seconda dei destinatari e di aumentare a dismisura le visualizzazione, di fatto contribuendo, in modo causalmente determinante, alla diffusione o meno di prodotti illeciti” (Cass. civ. n. 39763/2021).
Accertata ed affermata la qualifica di hosting provider attivo della piattaforma digitale, accertata e affermata la sua responsabilità per la diffusione di contenuti coperti da diritto d’autore (quindi illeciti senza il necessario consenso del titolare degli stessi), la Corte d’Appello di Roma ha assunto i provvedimenti conseguenti in tema di risarcimento del danno.
Ed infatti, nel caso di specie, non poteva applicarsi il regime delle esenzioni, ai sensi del quale il prestatore non è responsabile se
- non sia effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività;
- rimuova immediatamente le informazioni illecite non appena a conoscenza di tale illiceità (art. 16, D.Lgs. n. 70/2003).
E ciò sia in quanto tale norma non si applica all’hosting attivo, in quanto tale, sia perché, nel caso di specie, la piattaforma non aveva assolto al proprio onere probatorio: dimostrare cioè di essere un hosting passivo.
La Corte d’Appello di Roma ha dunque definito la vicenda condannando la piattaforma digitale al pagamento di una piuttosto ingente somma a titolo di risarcimento del danno, oltre ad infliggere condanne non pecuniarie quali la rimozione dei contenuti e la pubblicazione della sentenza sui quotidiani.
Dalla vicenda giudiziale descritta emerge chiaramente che l’orientamento giurisprudenziale formatosi nel tempo funge da preziosa guida per la definizione in concreto delle attività dell’hosting provider da cui derivano responsabilità civili.
D’altra parte, la regolamentazione europea di futura vigenza (i.e. il DSA) mira a normare aspetti e concetti che la giurisprudenza di legittimità (quantomeno italiana) aveva (e ha) già cristallizzato nel tempo.
Nondimeno una regolamentazione è senz’altro opportuna, se non altro in quanto oggi online si acquistano anche beni attinenti alla salute della persona (dispositivi medici e prestazioni sanitarie), si diffondono contenuti pubblicitari e/o informativi a volte disinformativi. La condivisione è ormai intersecata nella quotidianità del cittadino e del tessuto sociale di questa epoca, come tale non può e non deve ammettersi illimitatamente, ma deve essere consentita entro ben definiti limiti di non lesività di altri e diversi diritti di rango primario che non possono non essere gelosamente preservati.