Vuoi ricevere i nostri aggiornamenti?

Registrati per accedere ai contenuti riservati e iscriverti alla nostra newsletter

Quando la responsabilità da D.lgs. 231/2001 è esclusa?

01/07/2022
Cass. pen., Sez. IV, 15/06/2022, n. 23401

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione svolge un interessante ragionamento giuridico diretto ad indagare

  • l’adeguatezza del modello organizzativo adottato da un’importante società
  • l’autonomia dell’organismo di controllo nominato
  • la condotta fraudolenta dei soggetti che avevano commesso il reato presupposto,

offrendo spunti di riflessione interessanti per l’implementazione ed il mantenimento del sistema 231.

La vicenda riguardava il delitto di aggiotaggio compiuto dal Presidente del Consiglio di Amministrazione e dall’Amministratore delegato di una società, mediante la comunicazione ai mercati di notizie false sulle previsioni di bilancio e sulla solvibilità della controllata.

L’analisi di adeguatezza del modello

Il ragionamento della Corte prende le mosse dal dettato dell’art. 6 del D.lgs. 231/01, ai sensi del quale

l’ente non risponde se prova che… l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”.

Il fondamento della responsabilità dell’Ente è la c.d. “colpa in organizzazione”.

La sola commissione del reato non equivale ad automatica responsabilità dell’Ente, che risponde se non si è dotato di un’organizzazione adeguata e quindi se ha colpevolmente omesso di adottare tutte le misure necessarie a prevenire la commissione del reato.

La valutazione del modello dovrà essere svolta dal giudice in concreto limitando la verifica di idoneità alla prevenzione di reati della stessa specie di quello commesso.

Il modello organizzativo, cioè, non viene testato dal giudice nella sua globalità, bensì in relazione alle regole cautelari che risultano violate e che comportano il rischio di reiterazione dei reati della stessa specie. È all’interno di questo giudizio che occorre accertare la sussistenza della relazione causale tra reato ovvero illecito amministrativo e violazione del protocollo di gestione del rischio”.

In relazione al reato di aggiotaggio, il modello in questione era completato da una procedura autorizzativa dei comunicati stampa, articolata in più fasi che prevedevano il coinvolgimento di più funzioni aziendali; il problema stava nel fatto che la revisione della versione definitiva del comunicato e l’invio dello stesso era affidata in via esclusiva al presidente del consiglio di amministrazione e all’amministratore delegato, senza ulteriori controlli.

I giudici ritengono la procedura interna adeguata perché di fatto affidava agli organi di vertice dell’ente, dotati di poteri di rappresentanza, l’onere di avallare definitivamente le comunicazioni e di divulgarle.

 

L’autonomia dell’organismo di vigilanza

L’ente aveva nominato un Organismo di vigilanza monocratico, che, dall’organigramma aziendale, risultava alle dirette dipendenze del presidente del Consiglio di Amministrazione.

La Corte ribadisce che un tale assetto pone forti dubbi sull’indipendenza ed autonomia dell’organo di controllo.

Nel caso concreto, però, dalla ricostruzione dei fatti emergeva che le comunicazioni integranti il reato di aggiotaggio divulgate dal presidente e dall’amministratore delegato erano il frutto di un’azione estemporanea degli stessi, concordata in tempi molto stretti, rispetto a cui il grado di autonomia e financo la composizione monocratica dell’organismo rimanevano del tutto irrilevanti.

Ciò che invece la Corte ritiene di dovere indagare è fino a che punto sia legittimo pretendere che anche gli atti dei massimi rappresentanti di una società siano sottoposti a controllo da parte dell’organismo di vigilanza.

Per la Corte “Un modello organizzativo che rendesse obbligatorio un preventivo controllo di qualsiasi atto del presidente o dell’amministratore delegato di una società, senza distinzione di contenuti e/o di rilevanza, sarebbe difficilmente conciliabile con il potere di rappresentanza, d’indirizzo e di gestione dell’ente, che la legge civile riconosce a quegli organi.”

Diversamente l’organismo di vigilanza finirebbe per diventare un super controllore dell’attività anche degli organi direttivi, assumendo funzioni quasi gestorie, che esorbitano dal compito assegnatogli dall’art. 6, lett. b) d.lgs. 231/01.

Invero, l’organismo di vigilanza non può avere connotazioni di tipo gestorio, che ne minerebbero inevitabilmente la stessa autonomia: ad esso spettano, piuttosto, compiti di controllo sistemico continuativo sulle regole cautelari predisposte e sul rispetto di esse nell’ambito del modello organizzativo di cui l’ente si è dotato.”

Nel caso concreto esaminato dalla Corte, il modello non prevedeva un preventivo controllo dell’OdV sulle comunicazioni sociali, ma, se anche fosse stato previsto la Corte ritiene che difficilmente avrebbe potuto essere efficace. Un’eventuale dissenting opinion sulle comunicazioni non avrebbe potuto investire il merito delle comunicazioni, in quanto le scelte operative della società non sono appannaggio dell’organismo di vigilanza e la verifica dell’operato degli amministratori è affidato all’assemblea e agli altri organi societari.

 

La condotta elusiva

L’esame dei fatti di causa porta infine la Corte a ritenere la condotta del presidente del CdA e dell’amministratore delegato fraudolentemente elusiva.

Come già visto la procedura interna adottata dall’ente prevedeva più fasi con la partecipazione di diverse funzioni aziendali, secondo le rispettive competenze tecniche e affidava ai vertici aziendali il compito di approvare il testo definitivo della comunicazione e di divulgarlo. La procedura prevedeva anche che l’approvazione e la divulgazione delle comunicazioni dovesse avvenire d’intesa tra i due organi di vertice.

Il fatto che presidente e amministratore delegato, d’intesa tra loro, abbiano modificato i dati elaborati dalle competenti funzioni tecniche aziendali e, sempre d’intesa tra loro, li abbiano divulgati, configura una condotta falsificatrice, rispetto ai dati, nonché ingannevole e subdola.

 

In conclusione, del proprio ragionamento la Corte esclude la responsabilità ex d.lgs. 231/2001 della società.