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Per i farmaci da banco é consentito lo sconto. E per i trattamenti sanitari?
Con le conclusioni dell’Avvocato Generale Szpunar sulla Causa C-530/20, si ritorna sul tema dei limiti all’attività di pubblicità dei farmaci senza obbligo di prescrizione medica.
Ai fini del presente contributo interessa l’affermata interpretazione della normativa in materia di pubblicità dei medicinali e come tale interpretazione possa trovare un punto di incontro (ovvero di scontro) con la normativa in materia di pubblicità dei trattamenti sanitari. E ciò con l’obiettivo di concentrare l’attenzione specialmente sulla possibilità, nell’uno e nell’altro caso, di comunicare uno sconto.
Appare, dunque, anzitutto necessaria una – seppur breve – disamina del procedimento giudiziale.
La questione controversa che ha condotto al rinvio pregiudiziale avanti alla Corte di Giustizia riguardava l’attività pubblicitaria svolta dalla società Euroaptieka (di origine lettone), titolare di una rete di farmacie e di aziende di vendita al dettaglio di medicinali.
L’attività, nello specifico, aveva ad oggetto l’offerta di una riduzione del 15% sul prezzo d’acquisto di qualunque medicinare in caso di acquisto di almeno tre prodotti.
Il ricorrente sollevava una problematica interpretativa della normativa sovranazionale in materia di pubblicità di medicinali, ivi compresi quelli non soggetti a prescrizione medica. Questa è contenuta all’interno della Direttiva 2001/83 agli articoli dall’86 al 100 ed in particolare, per quanto di interesse, prevede:
- agli artt. 86 e 87 una definizione di “pubblicità dei medicinali”, intesa come “qualsiasi azione d’informazione, di ricerca della clientela o di incitamento, intesa a promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali” e dispongono che “la pubblicità di un medicinale (…) deve favore l’uso razionale del medicinale, presentandolo in modo obiettivo e senza esagerarne le proprietà”;
- all’art. 90, invece, un elenco degli elementi che la pubblicità del medicinale non deve contenere (es.: garanzia circa l’inesistenza di effetti collaterali negativi; assimilazione ad un prodotto alimentare, cosmetico o ad altro prodotto di consumo; riferimento in modo abusivo, spaventoso o ingannevole a certificati di guarigione, ecc.).
L’Avvocato Generale, dopo aver svolto una interpretazione (testuale, sistematica e teleologica), ha chiarito che il focus essenziale della Direttiva è quello della tutela della salute pubblica. Questo anche in ragione della delicatezza della categoria dei medicinali che, sostanzialmente, si distinguono dalle altre merci per via dei loro effetti terapeutici.
Imporre dei limiti alla comunicazione pubblicitaria dei medicinali risponde, infatti, alla necessità di scongiurarne (o quanto meno di non incentivarne) l’uso incauto o scorretto, in ragione dell’effetto nocivo che tale uso potrebbe determinare sul paziente, che potrebbe non essere in grado di prenderne coscienza al momento della somministrazione.
Ciò non equivale, però, ad imporre un divieto assoluto sullo svolgimento di attività pubblicitaria, anche quando riguardante il prezzo. In generale, infatti, la pubblicità presso il pubblico di medicinali non soggetti a prescrizione medica che diffonda informazioni relative al prezzo (ivi compresa la comunicazione di uno sconto) è di per se lecita.
Il messaggio diventa illecito quando destinato a diffondere informazioni che incoraggino l’acquisto di un medicinale facendo leva solo sull’elemento del prezzo, sul carattere speciale della vendita o sulla sua vendita insieme ad altri medicinali o prodotti, anche ad un prezzo ridotto. E ciò allo scopo ultimo di “condannare” la pubblicità che favorisca l’uso irrazionale dei medicinali.
Ora, non necessariamente la comunicazione di uno sconto può essere considerato un elemento sufficiente a determinare l’illiceità del messaggio, laddove questo rispetti i limiti di veridicità, trasparenza e correttezza, tipici della pubblicità, anche sanitaria.
Tanto è vero che, se vogliamo lo sguardo alla normativa italiana sulla pubblicità dei medicinali “da banco” (in applicazione della Direttiva in parola), è espressamente consentito alle farmacie “praticare sconti sui prezzi di tutti i tipi di farmaci e prodotti venduti pagati direttamente dai clienti, dandone adeguata informazione alla clientela” (art. 11, comma 8, D.L. n. 1/2012).
Lo stesso non può, invece (e purtroppo), dirsi con riferimento all’attività di comunicazione dei trattamenti sanitari, anch’essi – e forse ancor di più – finalizzati alla tutela della salute pubblica. Ed infatti, sebbene il c.d. Decreto Bersani (D.L. n. 223/2006) abbia liberalizzato la pubblicità sanitaria consentendo la comunicazione del prezzo di un determinato trattamento, rimane comunque percepibile una generale ritrosia rispetto alla valutazione dei messaggi che abbinino uno sconto al trattamento sanitario.
Eppure, si dovrebbe considerare che il trattamento sanitario, per sua stessa natura, non è erogabile se non dopo una attenta valutazione del medico rispetto alle condizioni di salute del singolo paziente. Questo elemento, in verità, rappresenta una vera e propria garanzia circa la sicurezza e la valutazione di necessità di un determinato trattamento, la cui eseguibilità non rientra – e non può rientrare - nella sfera decisionale assoluta del paziente.
In altri termini, se il farmaco “da banco” può essere acquistato liberamente dall’utente/paziente/consumatore, senza prescrizione medica e in assenza di altri ed ulteriori impedimenti, lo stesso utente/paziente/consumatore non potrebbe, invece, sottoporsi ad un trattamento sanitario se non previa prescrizione medica.
Viene, dunque, spontaneo interrogarsi circa le ragioni che inducono gli organi adibiti alla verifica a valutare “aprioristicamente” come illecita l’attività di pubblicità di un trattamento sanitario che comprenda anche la comunicazione di uno sconto, pure nel caso in cui questa non travalichi i confini di liceità, qui intesi come incentivo a sottoporsi ad un trattamento non necessario.
L’occasione della Causa C-530/20 potrebbe essere favorevole per riflettere sull’opportunità di adottare criteri “più elastici” che consentano di eseguire una disamina della comunicazione sanitaria maggiormente calata al contesto specifico nella quale si inserisce.