Corte di Cassazione, Sez III, 11/12/2023, n. 34516
Con la recente sentenza n. 34156/2023 la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di malpractice sanitaria su due aspetti di indubbio rilievo per i grandi risvolti pratici che avrà sull’ambito di responsabilità della struttura sanitaria e del medico curante e sui loro rapporti interni.
Le questioni principali risolte possono essere riassunte in tre quesiti:
- Risponde la struttura sanitaria quando fornisce il servizio per il tramite di un medico e/o struttura terza?
- E quando ed entro quali limiti la struttura sanitaria può rivalersi interamente sul singolo medico curante di quanto pagato al paziente per il danno del medico?
- A quali condizioni risponde la struttura sanitaria o il singolo medico curante se la prestazione rientra tra i “problemi tecnici di speciale difficoltà”?
Di seguito, un breve riepilogo del caso.
IL FATTO
Dopo essersi sottoposta ad intervento chirurgico per endometriosi profonda al IV stadio, la paziente citava in giudizio le strutture sanitarie (ASL e Casa di Cura) e il medico per ottenere il risarcimento danni da malpractice sanitaria.
In particolare, veniva contestato:
- al medico di non aver eseguito correttamente l’intervento chirurgico;
- alla Casa di Cura di aver svolto servizi di logistica e di supporto assistenziale in modo inadeguato, quali la fornitura di posti letto, sale operatorie e supporto assistenziale finalizzato alla gestione del ricovero;
- all’ASL di aver affidato l’esecuzione in “service” dell’intervento chirurgico al medico, mentre alla Casa di cura i servizi di logistica e di supporto assistenziale, entrambi risultati dannosi e/o inefficaci.
D’altra parte, i convenuti si difendevano e contestavano l’infondatezza della domanda risarcitoria per i seguenti motivi principali:
- il medico rappresentava la conformità dell’intervento alle linee guida di settore, nonché, in subordine, la speciale difficoltà della prestazione sanitaria che doveva condurre ad escludere la responsabilità per mancanza dell’elemento soggettivo della “colpa grave” previsto dall’art. 2236 c.c.;
- la Casa di Cura deduceva che le prestazioni erano state erogate dall’ASL e dovessero, pertanto, ritenersi di responsabilità di quest’ultima e che, in ogni caso, le prestazioni dalla stessa rese fossero conformi.
- l’ASL eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva ritenendo che la sua prestazione fosse stata fornita per suo conto, ma da parte di altra struttura e proponeva, in subordine, domanda di rivalsa nei confronti del medico e della Casa di Cura;
La risoluzione del caso davanti la Corte di cassazione, oltre a chiarire gli aspetti indicati in premessa, ci consente di approfondire tre aspetti di indubbia rilevanza pratica in tema di malpractice sanitaria.
LE PRESTAZIONI SANITARIE FORNITE TRAMITE TERZI
La prima questione riguarda la risoluzione della controversia in relazione all’affidamento a terzi della prestazione sanitaria.
Sul punto, deve preliminarmente osservarsi come l’art. 7, comma 1, Legge Gelli stabilisce quanto segue:
“La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché' non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose.
La disposizione mira a raggiungere lo scopo di attribuire la responsabilità dei danni alle strutture sanitarie nei confronti del paziente anche quando si avvalgano di terzi per l’erogazione della prestazione, a prescindere dalla natura del rapporto che lega la struttura e il terzo. La norma – ovviamente – richiama l’art. 1228 c.c. sulla “responsabilità per fatto degli ausiliari” che, in modo del tutto analogo, obbliga al risarcimento chiunque si avvalga dell’opera di terzi per rendere al creditore una qualsivoglia prestazione contrattuale.
Sulla base di questi principi, pertanto, la decisione della Corte di Cassazione ha avuto l’effetto di confermare la condanna dell’ASL a risarcire il danno al paziente, sebbene in solido (e quindi insieme) con il medico. Ne consegue che, salvo diverso accordo con il paziente, le strutture sanitarie risponderanno sempre dell’operato degli esercenti le professioni sanitarie di cui si sono avvalsi, a prescindere dalla natura del rapporto contrattuale tra il committente e il terzo.
L’AZIONE DI RIVALSA DELLA STRUTTURA SANITARIA NEI CONFRONTI DEL SINGOLO MEDICO
Ferma restando la responsabilità della struttura sanitaria verso il paziente, il secondo elemento di valutazione esaminato dalla Corte di Cassazione riguarda l’eventuale ripartizione interna del risarcimento tra l’ASL e il singolo medico.
Occorre chiedersi, a questo punto, se ed entro quali limiti la struttura sanitaria che ha risarcito per l’intero il paziente possa rivalersi nei confronti del “vero” ed “unico” responsabile del danno.
Sul punto, richiamando un nostro precedente contributo è necessario richiamare l’art. 9 della Legge Gelli nella parte in cui stabilisce le condizioni che devono sussistere affinché la struttura sanitaria si possa rivalere nei confronti del medico:
- Il medico deve aver eseguito scorrettamente la prestazione sanitaria in presenza del presupposto della “colpa grave”, con esclusione, quindi, dei c.d. casi di “colpa lieve”;
- La rivalsa può essere esercitata solo dopo che la struttura sanitaria ha interamente pagato il risarcimento danni al paziente ed entro un anno dall’avvenuto pagamento;
- Non dovrebbero sussistere situazioni di fatto di particolare difficoltà in cui si è trovato ad operare il medico, anche se di natura organizzativa della struttura sanitaria;
- L’importo della rivalsa non può superare una somma pari al “valore maggiore della retribuzione lorda” (se dipendente) o del “corrispettivo convenzionale” (se non dipendente) conseguiti “nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo”.
Se tali condizioni sono sufficientemente chiare e determinate, più problematica è invece la questione che riguarda la ripartizione interna delle responsabilità tra medico e struttura sanitaria: in particolare, occorre chiedersi se la struttura sanitaria, nel caso in cui l’evento dannoso sia addebitabile esclusivamente al medico, può esercitare una rivalsa nei confronti del sanitario responsabile per l’intera somma pagata al paziente.
È proprio questo il punto che la Corte di Cassazione, a conferma dei suoi precedenti (cfr. Cass. Civ., n. 28987 dell’11/11/2019), ha chiarito laddove ha evidenziato che l’esclusività della colpa del medico (come nel caso in commento) non è sufficiente per consentire alla struttura sanitaria di esercitare un’azione di rivalsa integrale, dovendosi ritenere necessario dimostrare:
“un’eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile, e oggettivamente improbabile, devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione”.
La mancata prova di questa “eccezionale”, “inescusabile”, “grave”, “imprevedibile”, “oggettivamente improbabile” devianza del medico, comporta secondo la Cassazione l’applicazione del comma 3 dell’art. 2055 c.c. secondo cui, salvo prova contraria, in caso di pluralità di responsabili si deve presumere che la quota di rispettiva responsabilità debba essere suddivisa equamente tra medico e ASL (50%).
Al fine di consentire alla struttura sanitaria di agire in rivalsa nella misura del 100% (o comunque superiore al 50% presunto dalla legge), la Corte di Cassazione ha stabilito che, oltre alla colpa esclusiva del medico, occorra dimostrare anche:
- una condotta del medico “del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità”
- l’assenza di “trascuratezze nell’adempimento del contratto di spedalità da parte della struttura, comprensive di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati”
Si tratta chiaramente di un onere della prova molto difficile da superare per la struttura sanitaria, la quale, pertanto, in difetto della “devianza del sanitario” come descritta dalla Cassazione, dovrà limitare la propria azione di rivalsa nella minor misura del 50%, anche qualora la responsabilità dell’accaduto sia imputabile esclusivamente al medico.
LIMITI DELLA RESPONSABILITÀ IN CASO DI “PROBLEMA TECNICO DI SPECIALE DIFFICOLTÀ”
Ultimo elemento di valutazione esaminato dalla Corte di Cassazione riguarda la speciale esenzione di responsabilità prevista dall’art. 2236 c.c. La norma stabilisce che:
“Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”
La Corte di cassazione si è dovuta pronunciare proprio sulla applicazione di questa disposizione. In particolare, la ratio della disposizione è quella di esonerare il debitore (in questo caso struttura sanitaria e medico) nei confronti del creditore (paziente) da qualsiasi responsabilità qualora l’errore sia commesso in presenza del c.d. presupposto della “colpa lieve”.
È stato deciso che in materia di malpractice sanitaria l’esimente dell’art. 2236 c.c. non potrebbe trovare applicazione tutte le volte in cui l’errore del medico derivi da “imprudenza”. Tale decisione, peraltro, si inserisce sul solco di una precedente sentenza della Corte di cassazione che aveva escluso l’applicabilità dello stesso istituto anche nei casi di “negligenza” del medico (cfr. Cass. Civ., Sez. III, n. 9085 del 19/04/2006).
Da tali pronunce, quindi, è agevole desumere come nei rapporti tra medico e paziente l’esimente troverà applicazione solo in caso di “imperizia”, dovendosi invece escludere che essa si applichi in presenza dei diversi presupposti di “negligenza” o “imprudenza”.
Diventa, dunque, fondamentale distinguere questi tre diversi profili della condotta in quanto la riconducibilità della prestazione sanitaria nell’uno o nell’altro potrebbe rendere del tutto irrilevante che il caso affrontato dal medico costituisca un “problema tecnico di speciale difficoltà”.
Quanto alla differenza tra imprudenza e imperizia è la stessa Corte di cassazione con la sentenza in commento a delimitarne implicitamente l’ambito, laddove precisa mentre “l’eradicazione eccessiva e oggettivamente azzardata” integra gli estremi di una condotta imprudente, la “pretermissione della tecnica nerve sparing, già conosciuta da anni e idonea alla fortissima riduzione della complicanza insorta” andrebbe ricondotta nel concetto dell’imperizia.
Se quindi l’imprudenza rappresenta un’azione pericolosa e sconsiderata (es. si pensi al tipico caso dell’overtreatment), l’imperizia è invece una condotta dannosa compiuta da una persona inesperta (o inadeguata allo scopo) come quando il medico si cimenta in una tipologia di intervento senza la dovuta esperienza e/o competenza.
Per quanto riguarda il significato di “negligenza” vi rientrano tutte le ipotesi in cui la condotta del sanitario, per disattenzione, trascuratezza o superficialità, si traduca in una violazione degli standards professionali che è legittimo attendersi da parte del professionista nell’espletamento della prestazione medica o nella somministrazione della cura al paziente (es: il chirurgo che non si accorga della mancata rimozione di corpi estranei in un campo operatorio) che nel caso della responsabilità medica rappresenta a dire il vero l’ipotesi più frequente.
CONCLUSIONI
La pronuncia in oggetto contiene tre arresti importanti:
- la struttura sanitaria risponde dei danni nei confronti del paziente derivanti da condotte colpose di qualsiasi esercente di professione sanitaria di cui si è avvalsa per erogare la prestazione;
- la struttura sanitaria che ha risarcito il danno a causa di una condotta esclusivamente riconducibile al medico potrà rivalersi nella misura del 100% nei confronti del medico curante solo se dimostra “un’eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile, e oggettivamente improbabile, devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione”.
- nell’ambito di prestazioni sanitarie complesse (art. 2236 c.c.), il medico (e la struttura) saranno responsabili anche nel caso di colpa lieve qualora la condotta sia imprudente o negligente, mentre non risponderanno in caso di condotta meramente imperita;
Le conclusioni di cui sopra suggeriscono quindi di gestire il rapporto di cura condiviso con i singoli medici in modo tale da prevenire situazioni e/o controversie relative a prestazioni sanitarie erogate ai pazienti, almeno sotto il profilo contrattuale e assicurativo, ma soprattutto organizzativo dovendo oggi la struttura sanitaria condividere con i singoli medici un piano di cure per assicurarsi che la prestazione sanitaria sia erogata in conformità a quest’ultimo.