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Lavoro e Covid-19: è possibile licenziare il dipendente che rifiuti il vaccino?
L’avvio della campagna di vaccinazione anti-Covid ha scatenato, in queste settimane, un acceso dibattito anche con riferimento alla possibilità per il datore di lavoro di richiedere ai propri dipendenti la vaccinazione come misura di sicurezza e, di conseguenza, di poter licenziare coloro che la rifiutino.
Il tema è sicuramente insidioso dal momento coinvolge diritti fondamentali della persona, primo fra tutti quello alla salute. Si sono delineati tendenzialmente due orientamenti contrapposti.
Parte degli esperti sostiene che non ci siano elementi validi per riconoscere al datore di lavoro un generico potere di licenziare il lavoratore che rifiuti il vaccino. L’insormontabile ostacolo deriva proprio dalla nostra Costituzione che, all’art. 32, dispone che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», la quale al momento manca e non sembrerebbe nemmeno nei programmi del legislatore.
In antitesi, altra parte degli esperti arriva a riconoscere un tale potere al datore di lavoro sulla base della disciplina delineata dall’art. 2087 c.c. e dal Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul lavoro, D.lgs. 81/2008.
In particolare, il primo obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori.
L’art. 279 TUSL permetterebbe, poi, di contestualizzare la precedente disposizione alla pandemia in corso, dal momento che fa riferimento a misure particolari (tra cui la messa a disposizione di vaccini) da adottare sul luogo di lavoro per prevenire il rischio di infezione derivante da un “agente biologico”. Infine, l’art. 18 comma 1 lett. g) e bb) TUSL sancisce l’obbligo per il datore di lavoro di adibire i lavoratori alla mansione soltanto qualora superino un “giudizio di idoneità”: l’esito positivo del giudizio potrebbe, così, essere subordinato all’avvenuta vaccinazione.
Il licenziamento del lavoratore per rifiuto alla somministrazione del vaccino sarebbe quindi supportato da giusta causa.
Come spesso accade, dipende. Il licenziamento disciplinare, infatti, deve essere affrontato caso per caso e in relazione alle esigenze contingenti dei diversi “ambienti lavorativi”. A seconda del contesto, infatti, l’inadempimento del lavoratore può assumere un peso notevolmente diverso: si pensi al caso in cui il luogo di lavoro è costituito da ospedali o case di cura private, la vaccinazione potrebbe legittimamente essere “pretesa” dal datore di lavoro anche nei confronti degli operatori sanitari; d’altro canto la stessa richiesta appare meno giustificata se applicata in contesti differenti, in cui è possibile, per esempio, garantire il distanziamento o svolgere le mansioni in smart working.
E tanto non basterebbe.
In ogni caso infatti il datore di lavoro, prima di procedere con il provvedimento espulsivo, dovrebbe infatti verificare se il dipendente sia ancora “idoneo” allo svolgimento delle proprie mansioni; in caso contrario, ulteriormente escludere la possibilità di rendere la prestazione in smart working o adibire il dipendente a mansioni differenti. E comunque, prima di licenziare, potrebbe essere necessario collocare il lavoratore in aspettativa non retribuita per impossibilità di rendere la prestazione in sicurezza. Solo come extrema ratio si potrebbe valutare un licenziamento, nel caso in cui con il passare del tempo si delinei un danno non sostenibile o in cui l’impossibilità di rendere la prestazione diventi definitiva. Da notare, però, che un licenziamento così prospettato rientrerebbe nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per cui, ad oggi e fino al 31 marzo 2021 (salvo proroghe), vige divieto.