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LAVORO: I nuovi contratti a termine dopo il DL lavoro

05/04/2014

[Decreto Legge 34/2014]

Lo diciamo subito: sicuramente sarà modificato dalla Legge di conversione, ma il decreto lavoro del Governo Renzi è, senza timore di smentita, l'inizio di una svolta epocale per il mercato del lavoro italiano.

Andiamo con ordine, partendo dal contratto a termine.

Cambia, in primis, l'archetipo contrattuale pensato dal legislatore, atteso che da oggi il rapporto di lavoro non si intenderà “sempre e comunque” a tempo pieno ed indeterminato, ben potendo il dipendente essere assunto a tempo determinato, senza che lo stesso vada ricondotto ad una particolare esigenza produttiva, tecnica o organizzativa dell'impresa. Tutt'altro, il contratto di lavoro sarà, al pari del rapporto a tempo indeterminato, “acausale”, senza quindi alcuna esigenza da specificare nel contratto.

Ma non è tutto. I datori di lavoro avranno infatti due soli obblighi: non superare le 8 proroghe (ma la legge di conversione, ne siamo certi, dimezzeranno questo numero) dello stesso contratto, e non eccedere i 36 mesi di durata del rapporto lavorativo, la sanzione, in entrambi i casi, è la subordinazione piena, con trasformazione del lavoro a tempo indeterminato.

Altro limite a cui fare attenzione è la soglia del 20%, quale numero di contratti a termine sottoscrivibili sul totale dei dipendenti dell'azienda. Si tenga conto che, anche in questo caso, è un aumento considerevole, attesa la delega sino ad oggi avuta in merito alla contrattazione collettiva che, al più, la contenevano in percentuali non superiori al 15% del totale dei lavoratori occupati.

In prima analisi, ed in attesa che si giunga al testo definivo che il Ministro del Lavoro ha definito non possibile di grandi cambiamenti, si ritiene, come anticipato, che le modifiche siano dirompenti.

E' ragionevole attendersi – al di là del contratto di apprendistato - di cui si dirà nei prossimi interventi – che la contrattazione a termine sia il futuro per coloro che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro, ma non solo. Ad essere contrattualizzati a termine saranno, ne siamo certi, tutti i “nuovi lavoratori”, sia in fase iniziale che per i tre anni di rapporto. La ragione è semplice, il rischio per il datore di lavoro è, al più, di dover corrispondere le mensilità mancanti tra il recesso e il periodo di proroga (pochi mesi, visto che le proroghe possono essere 8 su 36 mesi), cui si aggiunge che diventa oggi più difficile procedere con l'impugnazione del rapporto di lavoro per il dipendente. Quest'ultimo punto è centrale, ed è ragionevolmente il principio ispiratore della riforma, quello da cui si è partiti giungendo alla disciplina odierna. La contrattazione a termine significava, nella maggioranza dei casi, una successiva causa per l'azienda, perché i giudici potessero apprezzare, o dichiarare nulle, quelle apposizioni del termine, solo in presenza di comprovate esigenze produttive e tecniche. Doveva, in altre parole, essere dimostrata una ulteriore commessa che potesse giustificare l'assunzione a fronte dell'incremento del lavoro all'interno dell'azienda. In un periodo di crisi, lo si capirà bene, la prova era quantomeno complessa, e spesso il datore di lavoro si trovava a corrispondere ingenti risarcimenti ai propri dipendenti.

Il legislatore colpisce dunque nel segno, ritenendeo che il termine possa essere apposto senza alcuna ragione giustificatrice. Sarà però interessante capire come il decreto passerà il vaglio parlamentare (legge di conversione) e poi quello giudiziale, per capire come questa disciplina potrà conformarsi ai principi comunitari, attesa la stretta rispondenza della legge ispiratrice del 2001 (quella con cui sono stati introdotti i contratti a termine in forma moderna) a quanto richiesto da Bruxelles: causale giustificativa e un'unica proroga. L'opposto del decreto di cui si discute insomma.

Avv.Andrea Marinelli