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Decreto Lavoro e contratti a termine. Focus sulla vera occasione colta

11/05/2023

Il 1 maggio scorso è stato approvato il cd. Decreto Lavoro da parte del Governo nel quale, tra le tante novità, si registrano le modifiche alla disciplina dei contratti e della somministrazione a termine.  

In sostanza, il Decreto prevede la libertà di stipulazione del primo contratto tra le parti di durata fino a 12 mesi, che rimane, pertanto, a-causale. 

Dopo di che, per la sottoscrizione di un nuovo contratto o per prorogare il primo oltre i 12 mesi, il Decreto prevede il rinvio generale alle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, così lasciando allo strumento uno spazio estremamente ampio di regolazione. 

In assenza di previsioni in materia da parte dei CCNL - e comunque, fino alla scadenza del periodo transitorio, prevista per il 30/04/2024 – il Decreto consente la stipulazione dei contratti anche a fronte di “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”. 

Con il presente Decreto (che, tutto sommato, si pone sul solco delle modifiche all’istituto, introdotte dal cd. Jobs Act) si reitroduce, quindi, la possibilità di regolamentare la previsione di ulteriori specifiche esigenze che consentano di sforare il limite dei 12 mesi. 

Condivisibile o no, questa scelta si accompagna alla decisione governativa di abbandonare la previsione della certificazione delle causali, inizialmente prevista dalla novella legislativa, che costituisce, a nostro avviso, il vero punto di forza della presente riforma. 

Difatti, la stratificazione progressiva di norme e la necessità delle aziende di far fronte a continui aggiornamenti e adempimenti normativi, unitamente all’elevatissimo contenzioso in materia, hanno reso estremamente disagevole per il datore di lavoro la corretta applicazione della normativa in tema di contratti a termine. 

Pertanto, salutiamo con favore la mancata introduzione della certificazione delle causali, la quale, proprio per le caratteristiche connaturate all’istituto, avrebbe concretato ulteriori complicazioni in capo al datore di lavoro, quali, principalmente, l’attesa dei tempi di convocazione delle commissioni di conciliazione prima dell’avvio del successivo contratto, con inevitabile stop occupazionale/lavorativo a danno delle aziende e perdita di retribuzione per i lavoratori interessati che, nell’attesa, avrebbero necessariamente dovuto sospendere l’attività lavorativa per evitare sanzioni; o, ancora, il disagio anche solo per i meri rinnovi dei contratti oltre i 12 mesi, per i quali si sarebbe seguita la medesima procedura, in ogni caso con blocco dell’attività lavorativa tra un periodo e l’altro in attesa del rinnovo certificato; oltre ai connessi e inevitabili costi per la consulenza e l’assistenza contrattuale. 

Il tutto evitabile, ad esempio, con il ricorso alle Commissioni di certificazioni “privatistiche” (in sede Universitaria etc.) - i cui ulteriori costi, tuttavia, sarebbero stati accollati alle aziende - ma senza eliminare il considerevole rischio che il contratto con causale “certificata” sarebbe stato comunque, contestabile dal lavoratore in sede giudiziaria, non tanto sotto il profilo della sussistenza originariamente “certificata” ab origine, dalla Commissione,  quanto piuttosto sotto il profilo di come poi concretamente sviluppata ed attuata in azienda in relazione alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore ed alla posizione ricoperta dallo stesso. 

Nell’ambito di una riforma che innova in maniera poco significativa un istituto già grandemente rimaneggiato, cestinare l’ennesimo, irragionevole adempimento, appare, in fondo, un segnale di modernità.