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Quando il dovere di fedeltà del lavoratore soccombe al diritto di critica?

22/06/2022
Cass. civ., Sez. Lav., 31/05/2022, n. 17689

IL CASO: ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL MANAGER CHE SEGNALI POTENZIALI REATI COMMESSI DALLA SOCIETA'

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 17689/2022 del 31/05/2022 si è pronunciata sulla legittimità del licenziamento comminato ad un Dirigente, con qualifica di Direttore Generale, che durante la riunione del C.d.A., aveva dato lettura ad un documento, a propria firma, in cui venivano prospettate delle fattispecie di reato astrattamente imputabili alla Società (datore di lavoro).
In particolare, il Dirigente aveva manifestato una serie di perplessità con riferimento al bilancio di esercizio dell’anno 2012, ritenendo potenzialmente configurabili i reati di “falso in bilancio”, “ricorso abusivo al credito” e “false comunicazione sociali”.

I Giudici della Suprema Corte nella sentenza in oggetto, prima ancora di entrare nel merito dello specifico caso loro sottoposto, hanno elaborato una premessa generale nella quale sono stati ricostruiti - con estrema chiarezza - i termini del bilanciamento tra il “dovere di fedeltàex art 2105 c.c., imposto a tutti i lavoratori subordinati, e l’esercizio del “diritto alla critica” del dipendente nei confronti dell’operato/della persona del proprio datore di lavoro.
La contrapposizione di questi due principi è infatti propria di qualsivoglia rapporto di lavoro subordinato, a prescindere dalla qualifica di Dirigente ricoperta dal ricorrente nel giudizio in questione. È vero, infatti, che in tutti i rapporti di lavoro la libertà del singolo dipendente di contraddire, accusare o criticare il proprio datore di lavoro, quale espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero deve, naturalmente e necessariamente, essere contemperata dal dovere di fedeltà che lo stesso dipendente ha nei confronti del proprio datore. Ma fino a che punto possiamo dire che il lavoratore “non può criticare” il proprio datore di lavoro in nome di un dovere di fedeltà?

La Corte, sulla scia di precedenti filoni giurisprudenziali, dà una risposta alla nostra domanda prendendo in considerazione due diverse ipotesi.
La prima è quella del dipendente che divulghi fatti e accuse obiettivamente idonee a ledere l’onore o la reputazione del datore di lavoro. In questo caso il lavoratore travalica la libera manifestazione del pensiero quando la divulgazione di fatti o accuse lesive dell’onore o della reputazione del proprio datore di lavoro non è diretta a tutelare dei diritti di rilevanza costituzionale (al pari, appunto, dell’onore e la reputazione lesi dalla critica), ha ad oggetto fatti non veritieri ed è espressa con un linguaggio disdicevole.
La seconda ipotesi attiene invece alla denuncia alle Autorità competenti di fatti illeciti di rilievo penale o amministrativo compiuti dal datore di lavoro. In questa seconda circostanza la denuncia del lavoratore è legittima (e dunque, viceversa, è illegittimo il licenziamento comminato al lavoratore per il solo fatto di aver denunciato) se non è assistita dal carattere calunnioso. Il lavoratore può quindi denunciare, senza correre il rischio di essere licenziato, quando è convinto della veridicità del fatto illecito denunciato.  Se così non fosse, e quindi se all’obbligo di fedeltà si attribuisse una estensione tale sino ad imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti, significherebbe ammettere, come condivisibilmente sostenuto nella sentenza in commento, “una sorta di dovere di omertà”.

I Giudici della Suprema Corte, conclusa la premessa sul bilanciamento dei contrapposti interessi (dovere di fedeltà/diritto alla critica), si sono addentrati nella disamina del caso di specie oggetto del giudizio, evidenziando che nella fattispecie in esame la condotta del Dirigente non doveva intendersi quale espressione del “diritto di critica” bensì nei termini di un normale “dissenso” (ovverosia di una semplice volontà “non conforme”) rispetto a quanto dichiarato nel documento di bilancio 2012.
I Giudici hanno poi precisato che la manifestazione del dissenso in sede di CdA, rispetto alle previsioni del bilancio di esercizio, era condizione necessaria affinché le responsabilità e le conseguenze pregiudizievoli dell’atto delibero (il bilancio) non venissero imputate allo stesso Dirigente nella sua qualifica di Direttore Generale.

La Corte, conclusivamente, ha rilevato come il legame fiduciario (obbligo di fedeltà) che caratterizza il rapporto dirigenziale non possa determinare alcuna automatica compressione del diritto di critica, di denuncia e di dissenso spettante al lavoratore. Dal che la conseguenza che anche nel rapporto di lavoro dirigenziale, e ai fini della verifica della legittimità del licenziamento intimato al Dirigente, dovrà tenersi in considerazione il contemperamento tra l’obbligo - accentuato nel rapporto dirigenziale - di fedeltà e i predetti diritti di critica, denuncia e dissenso, escludendo che l’esercizio di questi diretti, nei limiti riconosciuti dalla giurisprudenza sopradetti, possa di per sé giustificare il licenziamento del Dirigente.