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La Corte di cassazione torna a pronunciarsi sull’annosa questione della prescrizione dei crediti retributivi: il dies a quo decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro!

02/11/2022

Cass. Civ, Sez. Lav., 06/09/2022, n. 26246

Torna di nuovo al centro del dibattito giurisprudenziale il tradizionale istituto della prescrizione. Tutti i lavoratori almeno una volta si saranno chiesti in quanto tempo si prescrivono i crediti retributivi. Questione ovviamente di non poco interesse.

Lo scorso settembre la Corte di cassazione è tornata sul tema (forse per l’ultima volta) individuando il momento a partire dal quale decorre il termine prescrizionale che porta all’estinzione del credito retributivo.

Prima di addentrarci nel cuore del discorso, è bene porsi una domanda, a mo’ di presupposto: in quanto tempo si prescrivono i crediti retributivi?

Il Codice civile prevede(va) una diversa durata a seconda della natura del credito generato dal rapporto di lavoro: cinque anni per le indennità di fine rapporto (art.2948, co.1, n.5 c.c.), tre anni per le differenze retributive nei rapporti di oltre un mese (art.2956, co.1, n.1 c.c.) e un anno per le retribuzioni inferiori al mese (art.2955, co.1, n.2 c.c.). Tale tripartizione è stata successivamente superata dalla Corte costituzionale che, già all’inizio degli anni Ottanta, aveva uniformato a cinque anni la durata del termine prescrizionale di tutti i crediti retributivi.

Da allora la durata quinquennale del termine prescrizionale non è stata più messa in discussione. La giurisprudenza si è invece concentrata sull’individuazione della decorrenza (c.d. dies a quo) del termine di prescrizione. Semplificando: da quando si devono iniziare a contare i cinque anni scaduti i quali il lavoratore non può più richiedere al datore di lavoro inadempiente il pagamento della retribuzione dovuta?

Le pronunce giurisprudenziali negli anni si sono plasmate sulla scorta delle novelle legislative in tema di tutela del licenziamento, propendendo talvolta per la decorrenza del termine in costanza del rapporto di lavoro e talaltra per la decorrenza del termine quinquennale dalla cessazione del rapporto. 

La Corte costituzionale nel 1966 (Sent. n. 63/1966) aveva escluso la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, in ragione dell’esistenza di una particolare situazione psicologica (c.d. metus) del lavoratore che avrebbe potuto spingerlo a desistere dall’esercitare il proprio diritto. In quel tempo, infatti, l’apparato normativo riconosceva un favor per il datore di lavoro rappresentato da una sostanziale libertà di recesso e dall’assenza di una qualunque tutela reintegratoria che permettesse al lavoratore illegittimamente licenziato (per aver esercitato un proprio diritto) di essere reintegrato nel posto si lavoro.

Con l’introduzione della tutela reintegratoria, applicabile quale che fosse il vizio che rendeva invalido il licenziamento per le aziende con più di 15 dipendenti, la giurisprudenza ha mutato orientamento (Sent. n. 174/1972 e s.s.). Secondo i Giudici, la possibilità di essere reintegrati sul posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo faceva venire meno quella particolare condizione psicologia produttiva della reticenza ad esercitare una pretesa economica in costanza di rapporto per il timore di essere licenziati. In quegli anni, la prescrizione dei crediti retributivi tornava quindi a decorrere durante il rapporto di lavoro per le aziende con più di 15 dipendenti e dalla cessazione del rapporto di lavoro per le aziende che avevano un limite numerico inferiore. Tale impostazione è stata confermata per decenni sino all’entrata in vigore della Riforma Fornero (L. 92/2012) e successivamente del D.Lgs. 23/2015, quando la tutela reintegratoria è stata relegata a poche e circoscritte ipotesi di licenziamento, con evidente preferenza del Legislatore per la tutela indennitaria.

La giurisprudenza oggi prova a fare chiarezza. La  Suprema Corte di cassazione con la sentenza n. 26246/2022  ha infatti affermato che nel nuovo quadro normativo, la reintegrazione del lavoratore che subisca un licenziamento illegittimo, non costituisce “la forma ordinaria di tutela contro ogni forma illegittima di risoluzione” e assume, dunque, un carattere “recessivo” rispetto alla tutela indennitaria.

Ne consegue quindi che il lavoratore durante il rapporto di lavoro ritorna a versare in una condizione soggettiva di subalternità psicologica data dall’incertezza circa la tutela (reintegratoria – prevista per ipotesi residuali - o indennitaria) applicabile in caso di licenziamento illegittimo. Una tutela che si svela al lavoratore solo ex post nell’ambito di un giudizio di impugnazione del licenziamento intimato dal datore di lavoro.

La Corte di cassazione è tornata quindi a ribadire che la prescrizione del credito retributivo decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro a prescindere dal limite numerico dei dipendenti impegnati.

La pronuncia assume una notevole portata applicativa. Da oggi i lavoratori potranno reclamare crediti sorti dal luglio 2007 (ovvero nei cinque anni antecedenti all’entrata in vigore della Riforma Fornero) e potranno avanzare tale richiesta entro cinque anni dalla cessazione del rapporto di lavoro: una possibilità, questa, fino allo scorso settembre esclusa per i dipendenti delle grandi aziende per crediti ultraquinquennali.

Da ciò discendono molteplici conseguenze: una richiesta di maggiore conservazione dei documenti dei comparti delle risorse umane, non più certo limitata agli ultimi 10 anni, una diversa quantificazione del “rischio azienda” nella valutazione dei contenziosi lavoristici su cui si riflettono diverse modalità di effettuare le due diligence prodromiche alle operazioni straordinarie.