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La scorretta tenuta della cartella clinica: quali conseguenze?
La corretta e completa tenuta della cartella clinica rappresenta un tema di grande rilevanza per le strutture sanitarie chiamate a difendersi da richieste risarcitorie per responsabilità sanitaria.
Sul tema è intervenuta recentemente la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16737/2024 chiarendo gli aspetti attinenti la qualificazione giuridica della cartella clinica, le prove ammissibili per la scorretta tenuta della stessa e quando eventuali mancanze rilevano per determinarne il nesso causale con il danno eventualmente subito dal paziente.
Più esattamente, senza voler entrare nel merito della questione fattuale che ha condotto alla pronuncia della Suprema Corte che, invero, non si pronuncia sul merito ma solo su questioni di legittimità, i principi affermati con la menzionata sentenza si possono schematizzare come segue.
Qual è la validità giuridica della cartella clinica?
La cartella clinica redatta all’interno delle strutture sanitarie pubbliche o private convenzionate con il servizio sanitario pubblico ha natura di certificazione amministrativa, nella parte in cui contiene le trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento.
Occorre infatti distinguere il duplice contenuto della cartella clinica: da un lato, le attestazioni circa le attività espletate, coperte da fede privilegiata; dall’altro, le valutazioni, le diagnosi, le opinioni e le manifestazioni di scienza, invece non coperte da fede privilegiata.
Solo nel primo caso, infatti, chi è onerato della compilazione della cartella clinica agisce in qualità di pubblico ufficiale, cosicché le informazioni contenute nella cartella clinica aventi fede privilegiata possono essere contrastate mediante querela di falso. Vale a dire le sole indicazioni circa le attività cliniche e strumentali svolte, le terapie prescritte e poi eseguite in relazione al paziente.
Rispetto a ciò che non è contenuto nella cartella clinica e che la parte danneggiata assume doverci essere (es. rispetto ad attività terapeutiche svolte e non menzionate), la Corte ritiene invece non doversi procedere con la querela di falso. Questo in quanto la cartella clinica fa fede fino a querela di falso solo in positivo, ovvero in relazione ai dati obiettivi in essa contenuti, non anche in relazione a quelli assenti.
Sotto tale ultimo profilo, quindi relativamente ai dati assunti dalla parte in giudizio come mancanti – ma essenziali – è possibile fornire prova con qualsiasi mezzo (anche per testimoni), trattandosi di un elemento fattuale da verificarsi nel merito.
Questo il primo aspetto analizzato dalla Suprema Corte, la quale ha enunciato il seguente principio di diritto:
“le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un’azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e segg. c.c., per quanto attiene alla indicazione ivi contenuta delle attività svolte nel corso di una terapia o di un intervento. La prova dell'effettivo svolgimento di attività non risultanti dalla cartella clinica stessa può essere invece fornita con ogni mezzo.
Non sono coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa annotate”.
Come rileva l’incompletezza della cartella clinica ai fini della valutazione del nesso causale?
La Corte sul punto tiene a ribadire un principio già da tempo affermato in sede di legittimità, secondo cui l’eventuale incompletezza della cartella clinica rappresenta una circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un nesso causale tra l’operato del sanitario e il paziente.
Tale valutazione può avvenire in forza del principio della vicinanza della prova, partendo dall’assunto per cui l’incompleta o scorretta tenuta della cartella clinica non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente.
In tal caso, infatti, il giudice potrà ricorrere a presunzioni qualora sia impossibile una prova diretta del nesso causale per “colpa” del comportamento della parte (i.e. il sanitario e/o la struttura sanitaria) contro cui doveva dimostrarsi il fatto (i.e. l’incompletezza della cartella clinica).
Tuttavia, tale principio non opera automaticamente ma può determinare l’accertamento dell’esistenza di un valido nesso causale tra l’atto medico e il danno solo alla presenza di due condizioni:
- quando sia l’incompletezza lamentata ad aver reso impossibile l’accertamento del nesso causale; e
- quando il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.
Seppur entro i sopra espressi rigorosi limiti, il principio della vicinanza della prova giova a chi lamenta di essere stato danneggiato. Invero, se così non fosse, si andrebbe a favorire la posizione di colui che ha determinato la lacuna, disattendendo i propri obblighi di diligenza. Sul punto, infatti, la Suprema Corte ha più volte chiarito come:
“il medico ha l’obbligo di controllare la completezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176, secondo comma, cod. civ. e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale”.
Alla luce dei sopra esposti principi dalla Suprema Corte è possibile svolgere una breve finale riflessione: la cartella clinica, sia essa redatta nell’ambito del servizio sanitario pubblico o privato, rappresenta un documento di natura fondamentale per accertare (in favore del paziente) una eventuale responsabilità sanitaria, ma anche per escluderla, questa volta in favore della struttura o del sanitario.
Tale aspetto risulta particolarmente rilevante soprattutto nelle fasi antecedenti al giudizio, laddove la valenza probatoria della documentazione sanitaria assume una prioritaria fonte di valutazione.