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La rilevanza disciplinare di condotte extralavorative: tra il primato della vita privata e la giusta causa di licenziamento

31/03/2022

Tra i poteri costituendi lo status di datore di lavoro, oltre a quello direttivo e di controllo, vi è il ben noto potere disciplinare il cui esercizio, previsto all’art.2106 c.c., può manifestarsi attraverso numerose forme di sanzioni cd. conservative che prevedono il mantenimento del posto di lavoro (rimprovero verbale, ammonizione scritta, multa, sospensione e trasferimento) financo alla massima sanzione che comporta il recesso unilaterale dal rapporto di lavoro, ovvero il licenziamento per giusta causa (art.2119 c.c.).

La normativa vigente pone chiaramente diversi limiti all’azione di questo potere proprio per evitarne un (ab)uso draconiano lato datoriale.

Per quanto concerne l’ambito oggettivo d’applicazione, circa il potere disciplinare in generale, la norma dice che è azionabile in caso di mancata diligenza nell’esecuzione della prestazione (art.2104 co.1 c.c.), in caso di insubordinazione al superiore gerarchico (art. 2104 co.2 c.c.) e in caso di violazione dell’obbligo di fedeltà (art.2105 c.c.); mentre per la possibilità di recedere unilateralmente deve riscontrarsi “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.  

Nulla aggiunge a tal proposito né la Legge sui licenziamenti individuali del 1966 né lo Statuto dei Lavoratori del 1970.

Parrebbe quindi, da una lettura rigorosa delle norme, che le uniche condotte disciplinarmente rilevanti siano quelle agite in costanza (rectius funzione) del rapporto di lavoro. E infatti, la giurisprudenza di legittimità e di merito fino all’inizio degli anni Duemila era concorde nel ritenere operante una severa cesura tra le condotte svolte sul luogo di lavoro (disciplinarmente rilevanti) e quelle tenute nello svolgimento della propria vita privata cd. condotte extralavorative (disciplinarmente irrilevanti).

Si può leggere, a titolo di esempio, “i comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei all’esecuzione della prestazione lavorativa […] non possono rilevare ai fini della dedotta giusta causa di licenziamento, allorché non abbiano prodotto effetti riflessi nell’ambiente di lavoro e tanto meno nociuto al prestigio del datore di lavoro” (Cass. 3 ottobre2000, n. 13144).

L’erosione di detta cesura si è iniziata a compiere proprio partendo da casi in cui la condotta extralavorativa, quand’anche non direttamente eseguita in costanza del rapporto di lavoro, vi era in qualche modo connessa: ad esempio il lavoratore che compiva un reato nei locali aziendali fuori dall’orario di lavoro (è il caso di un dipendente processato per spaccio di stupefacenti nel parcheggio aziendale Cassazione 2002), oppure per comportamenti lesivi dello specifico campo di attività professionale (è il caso del bancario protestato per aver emesso assegni a vuoto Cassazione 2000), oppure ancora per comportamenti delittuosi collegati dagli organi di stampa all’imprenditore (è il caso del lavoratore inquisito per violenza sessuale le cui generalità e luogo di lavoro sono state diffuse a mezzo stampa Cassazione 2013).

In tutti questi casi il giudice di legittimità ha ritenuto fondato il licenziamento per giusta causa.

Un passo ulteriore in questa direzione è stato compiuto dalla Cassazione nel 2004 la quale ha ritenuto fondato il licenziamento di un dipendente intimato dopo che questo era stato destinatario di un avviso di garanzia afferente ad un reato compiuto nell’esercizio dell’attività lavorativa precedente.
La Cassazione ha ritenuto che “assume rilevanza […] la condotta tenuta dal lavoratore in un precedente rapporto, tanto più se omogeneo a quello in cui il fatto viene in considerazione”. Pertanto, il giudice, forte dell’omogeneità delle attività svolte dai due datori di lavoro, ha ritenuto fondato il licenziamento per una condotta precedente al momento dell’assunzione. Infine, con nota sentenza n.428/2019, la Cassazione Civile Sez. Lav. ha riordinato le numerose interpretazioni alluvionali che si erano precedute. In primo luogo, afferma l’assoluta prevalenza del vincolo fiduciario (derivato dai principi generali di correttezza e buona fede contrattuale) “La fiducia, che è fattore condizionante la permanenza del rapporto, può essere compromessa, non solo in conseguenza di specifici inadempimenti contrattuali, ma anche in ragione di condotte extralavorative che, seppure tenute al di fuori dell'azienda e dell'orario di lavoro e non direttamente riguardanti l'esecuzione della prestazione, nondimeno possono essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti”. Conferma poi la posizione assunta nel 2004 rispetto alle condotte precedenti l’instaurazione del rapporto di lavoro “le condotte extralavorative che possono assumere rilievo ai fini dell'integrazione della giusta causa afferiscono non alla sola vita privata in senso stretto bensì a tutti gli ambiti nei quali si esplica la personalità del lavoratore e non devono essere necessariamente successive all'instaurazione del rapporto”. Infine, il definitivo colpo di grazia viene inferto asserendo che le condotte che possono integrare giusta causa di licenziamento, non solo possono essere extralavorative, non solo possono essere precedenti all’instaurazione del rapporto di lavoro, ma possono addirittura non essere penalmente apprezzabili “Né si può sostenere che la rilevanza delle condotte extralavorative antecedenti all'instaurazione del rapporto dovrebbe essere limitata ai fatti integranti fattispecie di reato e riconosciuta solo in presenza di una sentenza passata in giudicato che abbia accertato la responsabilità del dipendente”.

In conclusione, senza voler trascurare l’importanza e la rilevanza del vincolo fiduciario che deve intercorrere fra datore e lavoratore, la deriva interpretativa di questo istituto rischia di condurlo allo scontro frontale con due principi di rango costituzionale ineluttabili: il primo è il diritto al rispetto della vita privata (art.8 CEDU) inesorabilmente compromesso in una visione del rapporto lavorativo permeante, anche sul piano disciplinare, le scelte che l’individuo compie autonomamente e privatamente; il secondo è il diritto al ravvedimento (anche interiore) nonché il diritto all’oblio, ovvero evitare che una condotta pregressa possa rappresentare un “marchio d’infamia” che sia d’impedimento al diritto costituzionale dell’autorealizzazione e autosostentamento economico del cittadino.