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La responsabilità 231 nel gruppo d’imprese: indicazioni per prevenire la diffusione della responsabilità alle società collegate

06/04/2021
Laura Asti
David Vaccarella

Oggi il fenomeno del gruppo di imprese è imprescindibile anche per quelle medio-piccole. Sebbene la rilevanza economica di tale fenomeno sia indiscutibile, non è seguita la dovuta attenzione da parte del legislatore nella sua regolamentazione che, tuttora, non definisce a chiare lettere il cd. “gruppo di imprese” o “gruppo d’aziende”.

Tuttavia, negli ultimi anni si è passato da un insieme di disposizioni isolate ad un insieme quasi omogeneo, soprattutto dopo la nota riforma del diritto societario del 2003.

A tal proposito, la norma più rilevante è rappresentata dall’art. 2497 c.c. che regolamenta i profili di responsabilità della società che esercita attività di direzione e coordinamento nei confronti dei soci e dei creditori della società soggetta a tale attività.

Il quadro appena delineato si complica ulteriormente nell’ambito del diritto penale d’impresa. Infatti, la distanza che intercorre fra le attività aziendali ed i vertici decisionali rende più difficile l’accertamento della responsabilità di questi ultimi.

I profili critici più comuni nell’ambito di tale accertamento si individuano

  1. nella difformità dei diversi ordinamenti giuridici nazionali;
  2. nella dispersione geografica dell’attività aziendale;
  3. nel decentramento dei centri decisionali.

Nell’ambito del D. Lgs. 231/2001 non è neppure menzionato il concetto di gruppo di imprese. Infatti, l’intero impianto è fondato su una concezione individuale di impresa.

Pertanto, la regola generale è che ogni società avrà un’autonoma responsabilità e sarà compito dell’interprete valutare eventuali concorsi delle altre società facenti parte dello stesso gruppo.

Deve essere comunque esclusa un’automatica assunzione della posizione di garanzia ex art. 40, comma 2, c.p. da parte della società controllante (nell’ambito della responsabilità cd. ascendente).

Parimenti, per quanto riguarda la responsabilità cd. discendente è intervenuta la Suprema Corte sancendo che

non è possibile desumere la responsabilità delle società controllate dalla mera esistenza del rapporto di controllo o di collegamento all’interno di un gruppo di società. Il giudice deve esplicitamente individuare e motivare la sussistenza dei criteri di imputazione della responsabilità da reato anche in capo alle controllate[1].

Come si determina quindi la responsabilità della capogruppo o delle altre società controllate?

Secondo le linee guida redatte da Confindustria, le holding possono essere ritenute responsabili per il reato commesso nell’attività della controllata soltanto se:

  1. il reato presupposto sia stato commesso nell’interesse o vantaggio diretto oltre che della controllata, anche della controllante;
  2. il reato sia stato commesso da parte o in concorso da soggetti collegati in maniera funzionale alla controllante;
  3. i soggetti di cui al punto 2 devono avere fornito un contributo causalmente rilevante.

La linea guida citata fornisce anche degli esempi, quali l’emanazione di direttive penalmente rilevanti o l’occupazione dei vertici della holding e della controllata da parte delle medesime persone fisiche.

In altre parole, si delinea una responsabilità anche in capo alla società capogruppo qualora i soggetti apicali della stessa dovessero prendere parte alla gestione della controllata rendendo, di fatto, solo apparente l’autonomia organizzativa-giuridica della controllata.

Anche la giurisprudenza si è mossa in tal senso, infatti una pronuncia del 2011[2] stabiliva che il contributo causalmente rilevante dei vertici della holding deve essere provato in maniera concreta e specifica.

Come affrontare il rischio di “diffusione” della responsabilità all’intero gruppo societario?

Lo strumento fondamentale per affrontare tale rischio è costituito dalla redazione di un modello organizzativo idoneo a prevenire che vengano commessi reati-presupposto nel contesto del gruppo.

Il punto di partenza è la redazione di un singolo modello per ogni società del gruppo. Tuttavia, la capogruppo potrà fornire indicazioni e modalità operative che consentano di avere un miglior coordinamento e maggior coerenza nell’intero assetto organizzativo del gruppo senza, per questo, limitare l’autonomia delle singole controllate.

Parimenti, è necessario che ogni società si doti di un proprio OdV che rispecchi le esigenze di cui all’art. 6, comma 1, lett. b del D. Lgs. 231/2001[3].

Inoltre, è opportuno evitare che i medesimi soggetti rivestano gli stessi ruoli apicali nell’ambito di più società all’interno del gruppo, in modo da ridurre al minimo la possibilità di “contaminazioni” che “potrebbe[ro] avvalorare la tesi del concorso dei vertici di più società del gruppo nella commissione del reato presupposto[4].

D’altra parte, l’esistenza di un gruppo di imprese può fornire anche dei vantaggi. A tal proposito, infatti, nei confronti delle società controllate la capogruppo può

  1. redigere un modello di organizzazione diviso in parte generale (comune a tutte le società del gruppo) che può essere completato da uno di parte speciale adottato da ogni controllata;
  2. supportarne il management;
  3. orientare i flussi informativi da e verso gli OdV secondo le best practice;
  4. indicare i possibili presidi che ogni controllata può adottare in funzione delle aree di rischio derivanti dal rapporto con la holding;
  5. accentrare alcune funzioni all’OdV alla capogruppo (facendo attenzione a non minare l’autonomia di ciascun OdV);
  6. regolare il coordinamento fra i vari OdV (senza fornire poteri ispettivi in capo all’OdV della holding);
  7. adottare un regolamento di gruppo.

Sebbene tali indicazioni non forniscano un rischio zero, risultano, se attivamente adottate, dirimenti per la riduzione del rischio di “risalita” o di “diffusione” della responsabilità 231 della controllata nei confronti della capogruppo o delle altre controllate.

 

[1] Cass., VI Sez. pen., sent. n. 2658 del 2014

[2] Cass., V Sez. pen., sent. n. 24583 del 2011

[3] L’articolo citato recita “[Organismo di vigilanza deve essere] dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo”.

[4] Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231