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Il danno da lucro cessante: come dimostrare ciò che non è accaduto
Cass. Civ., sez.II, 3/04/2025, nr. 8905
Il risarcimento del danno non è un rimedio limitato all’inadempimento contrattuale, ma rappresenta un principio generale volto a sanare ogni pregiudizio ingiusto, sia esso derivante da un illecito contrattuale o extracontrattuale. Chi subisce un danno, che si tratti della violazione di un contratto (ad esempio, la mancata stipula e/o errata esecuzione di un accordo di fornitura di dispositivi medici) o di un comportamento illecito (come atti di concorrenza sleale), ha diritto a essere compensato per il pregiudizio subito.
In tutte queste ipotesi, l’operatore economico o professionale danneggiato può agire per ottenere un adeguato risarcimento, articolato in due componenti fondamentali riassunte dall’art. 1218 del codice civile:
- Danno emergente: la perdita economica effettivamente subita (ad esempio spese sostenute, investimenti andati perduti, pagamenti non dovuti);
- Lucro cessante: il mancato guadagno che si sarebbe potuto conseguire se il fatto dannoso non si fosse verificato (ad esempio mancata utilizzazione di un bene, interruzione di rapporti contrattuali, perdita di capacità produttiva o reputazione professionale, ecc.).
In parole semplici, mentre il danno emergente riguarda ciò che è stato effettivamente perso, il lucro cessante riguarda ciò che si sarebbe potuto guadagnare, ma che non si è realizzato a causa del danno. Tuttavia, se il danno emergente è spesso più semplice da provare (basta dimostrare il valore di ciò che si è perso), il lucro cessante pone maggiori difficoltà, proprio perché legato a eventi non verificatisi e quindi, per loro natura, incerti (occorre dimostrare ciò che si sarebbe potuto verificare).
A partire dalla recente sentenza della Corte di cassazione n. 8905/2025, che affronta il tema della quantificazione del lucro cessante, questo articolo si propone di approfondire la risarcibilità di questa componente del danno e di offrire indicazioni utili per la sua corretta documentazione, con particolare attenzione agli operatori economici e professionali che si trovino a dover dimostrare l’effettiva perdita di opportunità economiche.
Il problema all’apparenza potrebbe sembrare di esclusiva importanza per i giuristi, eppure la sua risoluzione presenta notevoli risvolti pratici per tutti gli operatori economici e professionali, potendo incidere in modo determinante sulla possibilità di ottenere – o meno – un risarcimento realmente adeguato al danno subito.
PERCHÉ IL LUCRO CESSANTE È DIFFICILE DA DIMOSTRARE?
Nelle aule giudiziarie in cui si discute sulla risarcibilità e quantificazione del lucro cessante, la parte danneggiata si trova spesso in difficoltà nel dimostrare la sussistenza di questa componente di danno poiché correlata a ipotesi mai verificatesi nella realtà ma verso le quali sviluppa legittime pretese di mancato guadagno.
Coglie nel segno quindi una sentenza del Consiglio di Stato quando chiarisce: “Per la prima voce di danno (quello emergente) è sufficiente che siano documentate le spese sostenute; per la seconda (lucro cessante) sussistono maggiori difficoltà, in quanto il privato deve dimostrare anche il mancato accrescimento della sua sfera patrimoniale nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento amministrativo riconosciuto illegittimo non fosse stato adottato ed eseguito” (cfr. Consiglio Stato n. 4722/2007)
In altri termini, dimostrare la sussistenza del lucro cessante è complesso in quanto il danneggiato dovrà provare al giudice:
- se, a causa dell’inadempimento contrattuale o del fatto illecito, non ha goduto di un accrescimento del proprio patrimonio (c.d. “an debeatur”);
- e, una volta accertato ciò, qual è la quota precisa di accrescimento che avrebbe potuto conseguire (c.d. “quantum debeatur”).
A conferma della complessità di questo doppio accertamento, si può prendere in considerazione la vicenda giudiziaria esaminata dalla sentenza di legittimità n. 8905/2025, semplificata nel seguente esempio:
- La società ALFA acquista un bene al prezzo di €10.000. Successivamente stipula con la società BETA un contratto preliminare per la futura vendita dello stesso bene a € 15.000. La società BETA, però, si ritira e non acquista più il bene. ALFA agisce in giudizio chiedendo il risarcimento, inclusa una somma per lucro cessante pari alla differenza tra il prezzo promesso e il prezzo di acquisto (€5.000).
Le diverse posizioni assunte nella vicenda possono essere così riassunte:
PARTI | AN DEBEATUR (SUSSISTE?) | QUANTUM (A QUANTO AMMONTA?) |
---|---|---|
ALFA | Sì: la mancata vendita ha comportato la perdita del guadagno atteso dalla rivendita | € 5.000: differenza tra prezzo promesso (€15.000) e prezzo d’acquisto (€10.000) |
BETA | No: ALFA non ha dimostrato che il bene è stato rivenduto a prezzo inferiore o non usato | Anche se spettante, dovrebbe essere liquidato equitativamente con prova concreta |
TRIBUNALE | No: non vi è stato inadempimento | Non specificato, poiché ha negato il diritto al risarcimento |
CORTE D’APPELLO | Sì: ha accolto la tesi di ALFA | €5.000: calcolato come differenza tra prezzo promesso e prezzo d’acquisto |
LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE: UN CRITERIO UTILE
Con la sentenza n. 8905 del 3 aprile 2025, la Corte di cassazione ha ribadito un principio importante in materia di lucro cessante, pronunciandosi sia sull'an debeatur che sul quantum debeatur.
Quanto all'an debeatur, la Corte ha affermato che il lucro cessante non deriva automaticamente dall’inadempimento, ma dal fatto che, durante la vigenza del contratto preliminare, ALFA non poteva disporre liberamente del bene, impedendone la commerciabilità. Questo vincolo ha giustificato la sussistenza del danno.
Quanto al quantum debeatur, la Corte ha censurato il criterio aritmetico applicato dalla Corte d’Appello, secondo cui il danno doveva corrispondere alla differenza tra prezzo di acquisto (€10.000) e prezzo promesso (€15.000). Al contrario, ha stabilito che la quantificazione deve essere effettuata sulla base della differenza tra il prezzo pattuito e il valore di mercato del bene al momento dell’inadempimento, tenendo conto di eventuali circostanze aggiuntive, purché allegate, provate e ragionevolmente prevedibili. La Corte ha quindi sottolineato l’errore della parte attrice (ALFA) nel non aver allegato e provato il valore effettivo del bene al momento dell’inadempimento, limitandosi a indicare come parametro il prezzo d’acquisto originario, che non costituisce un valido riferimento ai fini risarcitori.
CONCLUSIONI: QUALCHE INDICAZIONE UTILE
Il lucro cessante è una componente del danno risarcibile spesso trascurata o sottovalutata. La sentenza della Cassazione n. 8905/2025 rappresenta un riferimento utile per orientarsi nella sua corretta quantificazione. Il mancato guadagno va provato con dati concreti, e valutato tenendo conto del valore reale e attuale dell’opportunità perduta al momento della violazione, non di valori astratti o non aggiornati.
Di seguito, alcune indicazioni operative:
- Verificare la sussistenza e la quantificazione del lucro cessante: l’accrescimento patrimoniale mancato non deve essere ipotetico, ma fondato su elementi prevedibili e ragionevoli (es. la differenza di valore del bene non consegnato che si poteva sicuramente rivendere a prezzo maggiore, i mancati guadagni per l’inutilizzazione del bene destinato ad attività professionale e/o commerciale, e/o occasioni perdute di concludere altri contratti)
- Individuare le prove documentali a supporto: l’accrescimento va dimostrato in giudizio (es. preventivi e ordini già confermati; contratti; report di vendita, dati di mercato, piani aziendali, corrispondenza tra le parti, comunicazioni interrotte o offerte che non si è potuto accettare; relazioni tecniche o perizie che evidenzino il potenziale economico non realizzato).
Più sarà solido il quadro probatorio, maggiori saranno le probabilità che il lucro cessante venga riconosciuto e risarcito dal giudice.