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Diritto bancario: come e quando si prescrive il diritto del correntista di recuperare le somme indebite?
Cass. Sez. Unite, n. 24418/2010
Cass. Sez. Unite, n. 15895/2019
Buona parte del contenzioso giudiziario tra banca e cliente è costituita da controversie che riguardano i rapporti di conto corrente. In tali rapporti, infatti, accade spesso che la Banca addebiti somme illecite sulla base di clausole contrattuali usurarie, anatocistiche e/o diversamente illegittime.
Il correntista, per recuperare le somme illecitamente pagate alla banca, può promuovere l’azione di ripetizione prevista dall’art. 2033 c.c. Il diritto alla ripetizione può essere esercitato dal correntista entro dieci anni, dovendosi applicare l’ordinario termine di prescrizione.
Sebbene un termine decennale possa apparire molto ampio e non destare preoccupazione, bisogna precisare come nei contratti di conto corrente il periodo di dieci anni risulti spesso insufficiente, trattandosi di rapporti di lunga durata, anche, in taluni casi, trentennale.
Nelle aule giudiziarie si discute spesso del termine di prescrizione sotto un duplice profilo:
- A partire da quale data comincia a decorrere per il correntista il termine di prescrizione decennale (c.d. dies a quo)?
- Quando l’eccezione di prescrizione promossa dalla banca può impedire al correntista di recuperare le somme richieste in ripetizione?
Prima dell’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la giurisprudenza aveva fornito le due seguenti soluzioni:
- La prescrizione decorre dalla data in cui sul conto sono state versate somme a credito del correntista (Cfr., anche di recente, Trib. Verona, sez. III, 27 ottobre 2015, Giudice Eugenia Tommasi di Vignano);
- La prescrizione decorre dalla data di chiusura definitiva del rapporto di conto corrente (Cfr., tra le tante, Cass. n. 2262 del 9/4/1984; Cass. n. 10127, 14/5/2005).
Secondo il primo orientamento, il correntista poteva chiedere la restituzione delle somme indebitamente pagate soltanto se accreditate sul suo conto più di dieci anni prima dalla proposizione nel processo dell’azione di ripetizione; al contrario, in linea con il secondo orientamento, il correntista poteva recuperare tutte le somme indebitamente pagate, eccetto soltanto quelle accreditate oltre dieci anni dalla chiusura definitiva del conto corrente. Appare evidente come quest’ultimo orientamento fosse risultato molto più favorevole per il correntista, il quale, nei casi di mancata chiusura del conto corrente, conseguiva, persino, il vantaggio di recuperare tutte le somme indebitamente pagate nel corso del rapporto.
A soluzione del contrasto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 24418 del 2010, hanno adottato la seguente soluzione intermedia:
il termine decorre dalla data in cui sul conto sono state versate somme a credito del correntista (ciò avviene quando l’accredito è eseguito su un conto in passivo sprovvisto di apertura di credito, ovvero, quando l’accredito è destinato a coprire un passivo eccedente i limiti dell’affidamento concesso), mentre, decorre dalla data di chiusura definitiva del rapporto di conto corrente se la rimessa è ripristinatoria (ciò avviene quando l’accredito è eseguito su un conto in attivo sprovvisto di apertura di credito o quando il saldo del conto non abbia superato i limiti dell’affidamento concesso dalla banca).
In altri termini, il giudice di merito, chiamato a pronunciarsi sull’eccezione di prescrizione promossa dalla banca ai danni del correntista, dovrà individuare tutti i pagamenti effettuati dal correntista, e verificare, per ciascuno di essi, se, al momento della registrazione dell’accredito, il saldo del conto presentasse un segno negativo ovvero superasse i limiti dell’affidamento concesso.
Pertanto, se l’anzidetto accertamento giudiziale si conclude positivamente, la finalità delle somme pagate dovrà considerarsi solutoria e di conseguenza si prescriverà nel termine di dieci anni a decorrere dalla data di registrazione dell’accredito; al contrario, la somma pagata alla banca non potrà che conseguire una finalità ripristinatoria, con conseguente prescrizione delle rimesse dopo il decorso dei dieci anni dalla chiusura del conto.
In conclusione, pare potersi affermare che, sulla base dell’intervento delle Sezioni Unite, il correntista, qualora la banca promuova l’eccezione di prescrizione, potrà recuperare esclusivamente le somme che gli sono state accreditate nel momento in cui il suo conto (sprovvisto di apertura di credito) presenti un saldo positivo o in misura non superiore ai limiti dell’affidamento.
2. L’EFFICACIA DELL’ECCEZIONE DI PRESCRIZIONE PROMOSSA DALLA BANCA AI DANNI DEL CORRENTISTA
Nel primo paragrafo abbiamo specificato quando una somma può considerarsi solutoria oppure ripristinatoria e, di conseguenza, il regime di prescrizione applicabile alle due differenti ipotesi. Ulteriore problematica - di natura strettamente processuale - è sorta in seguito all’intervento risolutore delle Sezioni Unite e riguarda le caratteristiche che deve presentare l’eccezione di prescrizione al fine di impedire al correntista il recupero dei pagamenti “solutori”.
La questione si è posta nei casi – piuttosto frequenti a dir la verità – in cui la Banca si limiti ad eccepire genericamente la prescrizione. Nello specifico, accade che la banca, anziché indicare e provare la finalità solutoria degli accrediti, richieda genericamente la prescrizione delle somme accreditate sul conto “in data antecedente al decennio anteriore alla proposizione della domanda di ripetizione”. Attraverso questo “espediente” la banca qualifica solutori tutti i pagamenti intervenuti nel periodo individuato, senza escludere l’esistenza di accrediti “ripristinatori” che – come detto – soggiacerebbero ad un regime di prescrizione diverso e certamente più favorevole per il correntista. Ma allora, quali contenuti e caratteristiche deve avere l’eccezione di prescrizione promossa dalla banca per impedire al correntista il recupero delle somme richieste?
Sul punto, basti precisare che si sono formati in giurisprudenza due orientamenti (l’uno che considerava, in senso favorevole alla banca, sufficiente la proposizione dell’eccezione di prescrizione genericamente formulata; l’altro, favorevole al cliente, considerava l’eccezione siffatta inammissibile e infondata, con la conseguenza di determinarne il rigetto), la cui contrapposizione ha reso necessario un ulteriore e recente intervento delle Sezioni Unite (Cass., S.U., n. 15895/2019, 21/5/2019).
Secondo le Sezioni Unite, l’eccezione di prescrizione genericamente formulata deve essere dichiarata dal giudice di merito:
- “Ammissibile”, qualora la banca abbia allegato in atti l’inerzia del cliente nel recuperare le somme e la dichiarazione di volerne profittare (si precisa che, in caso di inammissibilità, al giudice sarebbe stata precluso persino la disamina della fondatezza dell’eccezione, trovandosi costretto quest’ultimo a rigettarla senza averla esaminata);
- “Fondata” o “infondata”, a seconda che l’attività processuale svolta dalla banca porti il giudice a considerare provata la finalità solutoria dei pagamenti.
In altre parole, le Sezioni Unite, evidenziando in premessa la differenza tra “onere di allegazione” e “onere della prova”, hanno chiarito che la richiesta di prescrizione delle somme accreditate sul conto in data antecedente al decennio anteriore alla proposizione della domanda di ripetizione, deve considerarsi sempre “ammissibile”, ma “fondata” (provata) soltanto quando l’attività processuale della banca sia capace di provare la finalità solutoria dei pagamenti di cui richiede la prescrizione.
3. CONCLUSIONI
In conclusione, pare potersi affermare che il problema della prescrizione nei rapporti di conto corrente continua e – probabilmente – continuerà a formare oggetto di dibattito all’interno delle aule giudiziarie. Difatti, nonostante due interventi in materia da parte delle Sezioni Unite, risulta ancora difficile in tali fattispecie individuare una soluzione stabile e uniforme che prescinda da una specifica analisi del fatto concreto.
Merita, pertanto, piena condivisione l’assunto espresso dalle Sezioni Unite al punto n. 7 della pronuncia (e, forse, fin troppo sottovalutato da alcuni commentatori), nella parte in cui ripropone il problema dell’efficacia dell’eccezione di prescrizione nel diverso e – logicamente – successivo ambito dell’onere della prova. Sulla base di tale pronuncia, fermo restando l’ammissibilità dell’eccezione genericamente formulata, potranno configurarsi i due seguenti esiti:
- L’eccezione viene rigettata in quanto la banca non è riuscita a dimostrare la finalità solutoria dei pagamenti di cui chiede la prescrizione (questo dovrebbe accadere, per esempio, quando la banca non produce in giudizio una perizia tecnica di parte attestante la finalità solutoria delle poste oppure quando non riesca a convincere il giudice attraverso il sistema delle “presunzioni” che, attraverso l’analisi di un fatto noto, consentono di addivenire ad un fatto ignoto);
- L’eccezione viene accolta poiché provata (questo, al contrario, accadrà sicuramente quando la banca depositi una “valida” perizia tecnica di parte oppure quando riesca a dimostrare l’esistenza dei pagamenti solutori attraverso il ricorso al sistema delle “presunzioni”).
Fermo quanto sopra, occorrerà, quindi, monitorare l’applicazione che i giudici di merito faranno del principio sancito dalle Sezioni Unite, soprattutto, quando la banca intenda chiedere al Giudice la nomina di un consulente tecnico d’ufficio (CTU) volta ad individuare la finalità ripristinatoria ovvero solutoria degli accrediti. Onde evitare che il Giudice ammetta una richiesta di CTU illegittima (perché finalizzata a colmare delle lacune probatorie proprie della banca convenuta), occorrerà in definitiva esaminare attentamente l’adeguatezza delle prove offerte della banca, incluso il sistema delle “presunzioni”.