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Differenza tra studio e ambulatorio odontoiatrico: il TAR Lazio stabilisce che una società di capitali non può essere uno studio
La vicenda da cui scaturisce la recente sentenza n. 4428/2019 del Tar Lazio – sede di Roma trae origine dalla mancata autorizzazione all’esercizio contestata a una struttura sanitaria, gestita da una Società (nello specifico una SRLS), esercente attività odontoiatrica non invasiva.
Tra le varie argomentazioni che offre il Tar capitolino e che di seguito si tratteranno, una in particolare si può considerare innovativa:
“Ed infatti già la forma societaria ( di capitali peraltro) utilizzata per l’esercizio dell’attività costituisce indice della configurabilità nel caso di specie di una organizzazione di stampo imprenditoriale; il fatto poi che l’attività professionale sia svolta da due odontoiatri, oltre che da una I.D., e la presenza nello studio di una segretaria configurano, ad avviso della Sezione, una forma di organizzazione che, ancorchè di ristrette dimensioni, non consente di ritenere prevalente, nel caso di specie, l’elemento della prestazione intellettuale del professionista su quello imprenditoriale, come detto costituente caratteristica tipica dello studio medico”.
La forma societaria denota implicitamente una forma organizzativa di tipo imprenditoriale, lontano dalla prevalenza dell’apporto intellettuale della professione rispetto all’organizzazione, come richiesto per lo studio odontoiatrico, e molto più vicino, se non corrispondente, a una struttura come quella ambulatoriale, in cui l’organizzazione di mezzi e personale risulta prevalente rispetto alle singole prestazioni professionali.
Ma andiamo per ordine.
La Società ricorrente, considerandosi uno studio e non un ambulatorio, procedeva a presentare la sola SCIA presso il Comune competente per l’apertura e non a richiedere l’autorizzazione all’esercizio necessaria per gli ambulatori o per gli studi eroganti, ad esempio, la chirurgia ambulatoriale ove prevista.
A seguito dei controlli ispettivi, alla Società veniva imposta la cessazione immediata dell’esercizio e la chiusura della struttura sanitaria perché trovata priva della prescritta autorizzazione all’esercizio.
Invero, la Società, proponendo ricorso, si difendeva rilevando come l’attività fosse svolta presso uno studio odontoiatrico, gestito certamente dalla Società de qua, ma che l’attività fosse esercitata dal legale rappresentante odontoiatra, un altro collega, due igieniste dentali e una segretaria senza, dunque, alcuna particolare organizzazione di mezzi e personale.
Inoltre, dalla struttura in questione veniva precisato come non fosse un ambiente aperto a un’utenza indistinta - elemento quest’ultimo che caratterizza i presidi ambulatoriali - ma solo ai pazienti dei professionisti.
In tal senso, pertanto, ritenendosi uno studio e non un ambulatorio, la Società non avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione all’esercizio ma semplicemente, come accaduto, presentare la SCIA in conformità con quanto previsto per l’apertura degli studi odontoiatrici.
La Società, infine, precisava altresì come per l’attività prestata non fosse programmato l’utilizzo di procedure diagnostiche e terapeutiche di particolari complessità, ne tantomeno l’erogazione di prestazioni di chirurgia ambulatoriale o attività comportanti comunque rischi per la sicurezza del paziente.
Da tale affermazione conseguiva, secondo la Società, anche l’esclusione ulteriore dell’obbligo di avere l’autorizzazione all’esercizio come imposto agli studi esercenti determinate attività di particolare complessità o rischiosità ai sensi D.Lgs. 229/1999.
Alla luce delle suddette motivazioni, i Giudici del capoluogo laziale attraverso un riepilogo della normativa più rilevante e dei precedenti giurisprudenziali ribadiscono il principale, e oramai noto, discrimine tra studio odontoiatrico e medico da un ambulatorio, ovvero l’elemento organizzativo-strutturale.
Gli ambulatori, infatti, hanno una propria organizzazione di mezzi e di personale e, quindi, gli stessi non costituiscono lo studio o gabinetto privato o personale in cui il medico esercita la sua professione.
Inoltre, i Giudici sottolineano come, anche dopo l’emanazione del D.Lgs. 229/1999, che ha obbligato gli studi medici eroganti procedure diagnostiche e terapeutiche di particolari complessità di dotarsi di autorizzazione sanitaria (riflesso della maggiore complessità organizzativa dell’ambulatorio rispetto allo studio medico), “l’elemento differenziale tra le strutture in questione non risulta quello della tipologia di prestazione ivi espletata bensì quello organizzativo, considerato che l’ambulatorio equivale a una struttura sanitaria in cui si svolgono prestazioni caratterizzate dalla complessità dell’insieme delle risorse umane, materiali e organizzative utilizzate per l’esercizio dell’attività che, mettendo in ombra l’attività medico professionale, configura una impresa ai sensi dell’art. 2082c.c.”.
Così, stante l’ulteriore motivazione del Tribunale espressa in epigrafe, che pone l’attenzione sulla forma societaria, parametro di un’organizzazione imprenditoriale e non meramente professionale medica, non si può altro che arrivare alla automatica (e forse discutibile?) conclusione per cui le società di capitali titolari di presidi sanitari debbano sempre munirsi dell’apposita autorizzazione in quanto non possono che essere a capo di struttura di tipo ambulatoriale.
Ora, sicuramente si riconosce il merito all’Organo Giudicante di aver tentato ancora una volta di specificare la diversità tra il concetto di studio e di ambulatorio ma, probabilmente, ha perso l’occasione di dare una reale spiegazione dei criteri che distinguono, nella pratica, l’apporto organizzativo, se pur minimo, presente in qualsiasi studio medico rispetto a quello che definisce e caratterizza un ambulatorio.
Quale sarebbero a livello fattuale gli elementi differenziali tra le due strutture mediche in questione?
E ancora, l’argomentazione del Giudice sembra basarsi su una presunzione, forse non propriamente giustificata, per cui una società, anche se di capitali, automaticamente debba gestire un presidio caratterizzato da un prevalente assetto organizzativo rispetto a quello intellettuale della professione.
Una siffatta presunzione, però, in una normativa tecnica come quella autorizzativa e caratterizzata ancora da una frammentaria e a volte lacunosa disciplina a livello regionale e comunale, non può trovare accoglimento.
Difficilmente, infatti, si può accettare una tale statuizione senza guardare caso per caso all’effettiva realtà fattuale e funzionale di ogni struttura coinvolta o, ancora, senza pensare a tutti quegli studi che diventano società di capitale senza alcun apporto sostanziale rispetto all’organizzazione di mezzi e personale interni.