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Cassazione: NO alle espressioni commerciali nella pubblicità sanitaria

31/10/2024
Cass. civ., Sez. II, Ord. 27/09/2024, n. 25820

Nuovo intervento della Suprema Corte di Cassazione in tema di pubblicità sanitaria. Con l’ordinanza n. 25820 del 27 settembre 2024, la Cassazione si è espressa su una vicenda che ha interessato un odontoiatra, in particolare, per la sua attività pubblicitaria ritenuta scorretta.

Il professionista in questione, infatti, ricorreva in Cassazione avverso la decisione n. 66/2018 resa dalla Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie (di seguito solo “CCEPS”). Con tale decisione la CCEPS confermava la sanzione comminata al professionista dalla Commissione Albo Odontoiatri di La Spezia, che aveva previsto la sospensione per mesi 4 dall’esercizio della professione.

L’ordinanza in commento, sebbene in parte lacunosa nella descrizione dei fatti oggetto di contestazione disciplinare, riesce comunque a confermare gli orientamenti sino ad oggi formatisi (anche non in ultimo grado di giudizio) in materia di pubblicità sanitaria.

In particolare, tra i fatti che pare siano stati motivo di sospensione si annoverano messaggi pubblicitari riferiti alla società “Dental Più”, svolti mediante insegne pubblicitarie non autorizzate, volantini, cartelloni pubblicitari affissi sul retro di mezzi pubblici di trasporto urbano, recanti:

  • la pubblicizzazione della realizzazione di impianti, corone e protesi mobili, cioè di dispositivi medici su misura;
  • una grafica tale da far risaltare ed enfatizzare il dato economico con termini quali “servizio low cost” e “gratis”.

Tali messaggi venivano considerati, in tutti i gradi di giudizio, scorretti.

Rispetto alla pubblicizzazione degli impianti, corone e protesi mobili, i giudicanti si limitano a constatare che tali dispositivi risultano essere su misura e fabbricati appositamente sulla base della prescrizione scritta di un medico qualificato, sotto la sua responsabilità. I dispositivi medici su misura sono, ai sensi del D.Lgs. n. 46/1997 (vigente all’epoca dei fatti), quelli che possiedono infatti specifiche caratteristiche di progettazione perché destinati ad essere utilizzati soltanto ad un determinato paziente e che necessitano di prescrizione medica.

Sul punto, c’è da riflettere su due aspetti:

  • uno è quello di ingannevolezza considerato dai giudici e dai componenti della commissione odontoiatri, rilevante in quanto veniva pubblicizzata una realizzazione di dispositivi che non può in realtà essere svolta dal professionista personalmente ma che necessita di un processo di realizzazione complesso e unico in relazione al paziente di riferimento;
  • l’altro, non trattato né in sede disciplinare né in sede giudiziale, è che la pubblicità al pubblico dei dispositivi medici su misura è vietata dallo stesso D.Lgs. n. 46/1997, richiamato nel testo dell’ordinanza.

Rispetto invece all’enfasi data all’aspetto economico, la Suprema Corte riafferma un principio già noto e ormai granitico, per il quale una pubblicità che esalta particolarmente o, addirittura, esclusivamente il dato economico (generalmente basso) è da considerarsi equivoca e suggestiva al punto da attrarre la clientela per via dei costi molto massi, incompatibili con la dignità e il decoro della professione.

Su questa scia, infatti, i termini come “low cost” e “gratis” presentano una connotazione meramente commerciale, capace di attrarre e persuadere il potenziale paziente attraverso concetti comunicativi emozionali, basati su elementi che eccedono l’informazione sanitaria e che, invece, sfociano nel tentativo di accaparramento di clientela con mezzi illeciti.

A sostegno di tali affermazioni vi è la considerazione per la quale la liberalizzazione della pubblicità informativa dei professionisti sanitari (avvenuta per mano del c.d. “Decreto Bersani”, D.L. n. 223/2006) ha:

  • da un lato, preservato il potere degli Ordini professionali di verifica della trasparenza e veridicità del messaggio pubblicitario ai fini dell’eventuale applicazione di sanzioni disciplinari. Ciò significa che liberalizzando la pubblicità non si è arrivati al punto di svuotare di significato precettivo le norme deontologiche sul tema (artt. 55 e 56 del Codice di Deontologia Medica). Rimane infatti vigente l’obbligo per il professionista di rendere una comunicazione sanitaria trasparente, rigorosa e prudente, rispettosa dei principi propri della professione medica, veritiera, corretta e non ingannevole;
  • dall’altro lato, non ha abrogato l’art. 4, comma 2, del DPR n. 137/2012, il quale prevede che la pubblicità informativa sanitaria deve essere “funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l’obbligo di segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria”.

Gli espressi principi fondanti la pubblicità sanitaria, riflettendo con attenzione, non sono tutti esclusivi e propri solo dell’informazione resa in ambito sanitario ma accomunano tutte le tipologie di pubblicità (verità, correttezza, trasparenza, non ingannevolezza, non denigratoria, non equivoca, ecc.). Tuttavia, la ragione delle condizioni più restrittive della pubblicità sanitaria tiene conto della particolare sensibilità dell’ambito in cui si inserisce: quello in cui si è capaci di condizionare ed incidere sulle decisioni del cittadino che attendono alla propria salute, bene fondamentale da tutelare e preservare prima di ogni altra cosa.