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Autorizzazioni e strutture sanitarie private: l'apertura non può prescindere dal fabbisogno pubblico

03/04/2019
Cons. di Stato, Sez. III, 07/03/2019, n. 1589

L'autorizzazione alla realizzazione di una struttura sanitaria e sociosanitaria, ai sensi dell'art. 8-ter, comma 3, del D.Lgs. n. 502/1992, non può prescindere da una valutazione di compatibilità con la programmazione regionale in relazione sia al fabbisogno complessivo, sia alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale.

Il vincolo della programmazione regionale, invero, in ambito autorizzativo non è certamente un elemento di novità; infatti, ciò che nella pronuncia in oggetto è meritevole di riflessione è la seguente motivazione addotta dai Giudici: l'autorizzazione deve rientrare nello strumento di pianificazione per ragioni legate alla tutela della salute, di interesse ovviamente pubblico e per ragioni legate alla tutela della concorrenza.

Secondo i Giudici, il vincolo della programmazione regionale pare lo strumento adatto per valutare l'effettiva necessità "di installare nuovi operatori, colmando così eventuali lacune nell'accesso alle cure ambulatoriali e per evitare una duplicazione nell'apertura delle strutture, in modo che sia garantita una assistenza medica che si adatti alla necessità della popolazione", e ancora, "che ricomprenda tutto il territorio e tenga conto delle regioni geograficamente isolate o altrimenti svantaggiate".

Se certo, da un lato, di semplice intuizione può essere la finalità di tutela della salute attribuita al suddetto vincolo, di più difficile comprensione è il richiamo alla tutela della concorrenza.

Sul punto, la pronuncia in oggetto sostiene che il vincolo della programmazione sia mezzo idoneo a "evitare il fenomeno deteriore di una offerta di prestazioni sanitarie con alta remunerazione, che risulti sovradimensionata rispetto  al fabbisogno effettivo della collettività e, quindi, dia luogo anche a processi di eccessiva concorrenza, che potrebbero portare ad un'inaccettabile caduta del livello di prestazione saniraria o, comunque, alla utilizzazoine di tecniche non virtuose di orientamento della scelta dell'assistito [...]".

Subordinando, quindi, l'autorizzazione alla realizzazione a un obbligatorio parere positivo della Regione si impedisce che zone meno redditizie possano rimanere prive di strutture adeguate e, al contempo, non si fomenti in una fuga degli operatori verso zone esclusivamente più redditizie.

In verità, nella pur lodevole ricostruzione dei Giudici, troppa poca attenzione sembra essersi data ad alcuni elementi assolutamente peculiari del regime autorizzatorio.

Anzitutto, occorre rammentare come l’obbligo del parere preventivo per il rilascio dell’autorizzazione nasca principalmente a tutela della parte pubblica, laddove per far fronte alla domanda dell’utenza è stato necessario autorizzare soggetti privati idonei all’erogazione delle cure.

Non vi era, pertanto, nel progetto legislativo originario alcuna volontà di incidere sul mercato degli operatori economici privati se non da un punto di vista qualitativo, favorendo solo i pochi soggetti privati già presenti.

Negli anni, a seguito di un incremento e una crescita esponenziale degli operatori privati in ambito sanitario, l’obbligo del parere ha assunto una diversa rilevanza, diventando uno strumento sempre più influente nel limitare l’entrata di nuovi soggetti privati in tale ambito.

E forse in questo senso, il vaglio, sebbene fatto rientrare nella programmazione regionale, impedisce che il proliferare di soggetti privati possa in qualche modo incidere, da un punto di vista economico, in senso negativo sulla stessa attività sanitaria pubblica.

Inoltre, sebbene la sentenza menzioni l’esigenza che un provvedimento negativo circa il rilascio dell’autorizzazione, debba essere correlato da un apparato motivazione assolutamente “adeguato e basato su una presupposta, oggettiva, valutazione dell’interesse pubblico finalizzato alla tutela del diritto alla salute”, non si può ignorare l’assoluta discrezionalità in tal senso in capo all’Ente pubblico.

E allora diventa certamente difficile condividere, se non in modo illusorio, il fine pensiero di Palazzo Spada dal momento che un soggetto economico privato può essere escluso dal mercato, con una evidente lesione alla libertà di iniziativa economica e della concorrenza, a seguito di una valutazione del tutto soggettiva (e arbitraria?) della parte pubblica.