Vuoi ricevere i nostri aggiornamenti?
Limiti interni ed esterni delle marcature CE alla luce della nuova discrezionalità tecnica del Giudice Amministrativo
Quale valenza giuridica assume la marcatura CE (o la dichiarazione CE di conformità per la direttiva macchine) in un eventuale contenzioso avanti il giudice amministrativo?
E che vincoli pone il possesso di detta marcatura in un’eventuale fase d’istruzione probatoria esperita nel corso di un procedimento giurisdizionale ex art. 35 l.n. 80/98, come modificato dall’art. 7 l.n. 205/00?
Tali domande iniziano a porsi – da un po’ di tempo a questa parte – in maniera sempre piu’ insistente agli addetti ai lavori.
Ciò è dovuto:
- da un lato al costante aumento del numero di prodotti per la cui immissione in commercio è richiesta - in forza delle direttive comunitarie recepite nell’ordinamento italiano - la marcatura CE (o la dichiarazione CE di conformità);
- dall’altro alle innovazioni introdotte dalla legge 2/8/2000 n.ro 205 che, nel modificare il processo amministrativo, hanno introdotto per la prima volta in detto processo la possibilità dell’istruzione probatoria, mutuandola dal processo civile.
Lo spunto per una breve riflessione su questi argomenti viene offerta dalla sentenza T.A.R. dell’Umbria 26/1/2001 n.ro 58.
Il caso in questione riguarda una procedura d’appalto per l’affidamento del servizio di lavaggio-noleggio di biancheria piana ecc. per il nuovo Ospedale di Città di Castello: cioè, per l’esattezza, di beni sottoposti alla disciplina di cui al D.Lgs. 46/’97 (Dir. 93/42/CEE) sui dispositivi medici che, come tali, sono soggetti alla marcatura CE per l’immissione in commercio.
La partecipante A ha proposto gravame avverso il provvedimento d’aggiudicazione alla concorrente B sul presupposto che la marcatura CE in possesso di quest’ultima non fosse “idonea” a coprire la fornitura dei beni oggetto di gara; più precisamente la ricorrente ha sostenuto che la certificazione della società B valesse solo per l’immissione in commercio di prodotti sterili in forma singola (teli, camici, garze ecc.) e non per gli stessi in forma assemblata (kits da sala operatoria).
L’eccezione - derivante dalla forse troppo scarna locuzione dell’autorizzazione all’apposizione della marcatura CE rilasciata alla concorrente B dall’Organismo notificato (ove si leggeva “Teli, Camici e Garze sterili” senza precisarne la forma singola o assemblata e, quindi, senza espressamente utilizzare le dizioni solitamente usate quali “prodotti assemblati” o “pacchi” o “kit” o “set” ) - non era meramente formale, ma assumeva al contrario una rilevanza sostanziale essendo i processi di sterilizzazione dei prodotti “assemblati” senza dubbio diversi e più complessi rispetto ai processi di sterilizzazione relativi a prodotti in forma singola.
L’aggiudicataria B, chiamata in giudizio, richiedeva a sua difesa l’intervento dell’Ente notificato ottenendo dallo stesso una “sorta di interpretazione autentica” (parole del Giudice Estensore) del certificato CE in suo possesso: l’Organismo notificato, sotto la propria responsabilità giuridica, dichiarava infatti di aver validato il processo interno di sterilizzazione dell’aggiudicataria per l’immissione in commercio dei suoi prodotti sterili non solo in forma singola ma anche in forma assemblata e che tale “capacità” della concorrente B trovava riscontro nei fascicoli tecnici presentati dall’Organismo notificato e nella documentazione disponibile presso l’azienda.
Tale dichiarazione veniva ritenuta sufficiente dal Giudice di merito, che rigettava il ricorso e decideva la causa in senso favorevole all’aggiudicataria.
La sentenza merita menzione per alcuni aspetti di novità, ovvero in primo luogo per il riconoscimento da parte del T.A.R. della “valenza giuridica” delle dichiarazioni dell’Ente notificato: i Giudici infatti, assumendo a fondamento della propria decisione le dichiarazioni dell’Organismo notificato, implicitamente hanno attribuito all’attività dello stesso una sorta di “rilevanza pubblica” atta a garantire ed assicurare a terzi (siano essi pubblici o privati ed, in questo caso, anche ai Giudici) la conformità dei prodotti dagli stessi certificati ai dettami delle normative di riferimento.
Tale riconoscimento non può non far riflettere.
Come noto, infatti, gli Enti notificati “nascono” nel diritto comunitario ed entrano a far parte del nostro ordinamento a seguito dei relativi recepimenti: si tratta cioè di un istituto giuridico di derivazione comunitaria che non trova la propria culla nel diritto italiano, da cui una serie di problemi interpretativi circa il ruolo, la funzione ma, soprattutto, la valenza giuridica dell’attività compiuta dagli stessi Organismi.
Trattasi infatti di soggetti aventi natura privata che svolgono un’attività di controllo su altri soggetti privati e che pertanto assumono una rilevanza fondamentale ai fini della tutela di un bene (salute e sicurezza), che riceve nel nostro ordinamento tutela costituzionale; in sostanza tali Organismi, seppur privati, svolgono un’attività amministrativa che sarebbe propria della P.A..
In questo senso sembra essersi espressa ad oggi la scarsissima giurisprudenza intervenuta (si segnalano le uniche sentenze trovate sul tema: T.A.R. Lazio Sez. II, 23 novembre 1987, n. 1793 in T.A.R. 1987, I, 3984 (seppure in termini molto generali) e T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II 11 luglio 1990 n. 302 in T.A.R. 1990, I, 3171) e negli stessi termini anche i pochi contributi dottrinali sul tema, nei quali si afferma che trattasi di attività fortemente espressiva di una posizione di autorità pubblica pur svolta da un privato (si veda Giannini M.S., Certezza pubblica, Milano 1960, 773) e tendenzialmente qualificabile, dalla legge penale, come pubblica funzione (si veda Ancora F., Normazione tecnica e certificazione di qualità: elementi per uno studio, in Cons. St. ’94, II, 1563).
La sentenza qui commentata sembra rafforzare queste tesi: seppure infatti il Giudice amministrativo non abbia colto, nella sentenza citata, l’occasione per approfondire una tematica così nuova nel nostro ordinamento (la sentenza è molto sintetica), ciò non toglie che il cardine su cui la decisione espressamente trova fondamento sia proprio la dichiarazione (rectius, l’”interpretazione autentica”) resa in corso di causa dall’Organismo notificato circa la conformità dei processi interni dell’azienda.
In sostanza il giudice ha deciso di “fidarsi” di quanto affermato dall’Ente notificato, riconoscendogli “rilevanza pubblica” come organismo delegato di funzione pubblica e, conseguentemente, assegnando “valenza pubblica” alle sue dichiarazioni, tali da garantire all’esterno la piena conformità dell’aggiudicataria ai dettami della legge.
Si può pertanto correttamente sostenere che i “limiti” interni della dichiarazione CE di conformità non si trovano nello stretto tenore letterale della certificazione stessa ma vanno ricercati nel concreto operato dell’Organismo notificato che, anche successivamente al rilascio della stessa certificazione, può sempre provvedere a precisare e chiarire detta autorizzazione benché si mantenga sempre all’interno dei contenuti di quel Technical file su cui si basa (e fonda) la marcatura CE.
Ma la sentenza in commento offre lo spunto anche per altre considerazioni.
Posto infatti che gli Organismi notificati svolgono la loro attività in forza di un’autorizzazione rilasciata dai Ministeri di riferimento (ad es. art. 8 D.Lgs. 459/’96 per le macchine e art. 15 D.Lgs. 46/’97 per i dispositivi medici) e che sono sottoposti alla vigilanza degli stessi Ministeri, configurandosi quindi come una sorta di “concessionari pubblici” - il cui compito tuttavia non attiene (come solitamente per i concessionari) all’erogazione di un servizio ma concerne invece un’attività di controllo propria della P.A. - ci si pone a questo punto una domanda: se i Giudici del T.A.R. Umbria non si fossero “affidati” alle dichiarazione dell’Organismo notificato, quali incombenti istruttori avrebbero potuto espletare? E quali conseguenze nell’ipotesi di esito negativo di detta istruttoria nei confronti dell’Ente notificato ?
Come noto la l.n. 205/2000 contenente “Disposizioni in materia di giustizia amministrativa” ha introdotto, all’art. 7 in modificazione al precedente art. 35 l.n. 80/98, la possibilità di disporre nelle controversie di competenze esclusiva del Giudice Amministrativo (che, a seguito della riforma, sono diventate la maggior parte) della c.d. “consulenza tecnica d’ufficio”, ovvero di quel particolare mezzo in base a cui un esperto della materia tecnica su cui verte la controversia redige una perizia che può aiutare il Giudice a decidere la causa.
Nel diritto processuale amministrativo esiste un altro istituto simile, chiamato “verificazione”, (prevista dall’art. 44, R.D. n. 1054/24, ora modificato dall’art. 16 l.n. 205/2000, e dell’art. 26, comma 2° R.D. 642/07, nonché applicabile anche ai giudizi avanti i TT.AA.RR. in ragione del rinvio di cui all’art. 19 L.n. 1034/71) la cui caratteristica sta nel fatto che l’accertamento disposto al fine di “verificare” appunto i fatti di cui è causa è svolto dalla “medesima Amministrazione… interessata”, con l’evidente limite di offrire il “fianco” alle critiche di possibile parzialità di chi deve emettere una valutazione (seppur tecnica) valente in un giudizio in cui la medesima è parte in causa.
Per questo le esigenze di effettività della tutela giurisdizionale e di imparzialità dell’istruttoria hanno portato il Consiglio di Stato (da ultimo con sentenza del 18/3/1998, n. 174) ad interpretare estensivamente le citate norme ed a consentire al giudice amministrativo di disporre verificazioni tecniche servendosi anche di organi di altre PP.AA..
Tuttavia l’introduzione della nuova normativa ha spinto sempre piu’ i TT.AA.RR. a preferire le C.T.U. anziché le verificazioni anche alla luce di quel principio del “giusto processo” che ormai rappresenta un cardine dell’intero sistema processuale italiano.
Ma cosa succede nei casi in cui uno degli oggetti della controversia giudiziale verte attorno alla certificazione rilasciata da un Ente notificato, ovvero da un “concessionario pubblico” che non è “direttamente” parte processuale nella causa ma che tuttavia ha interesse alla stessa in quanto l’istruzione probatoria grava sulla certificazione dallo stesso rilasciata ?
La conseguenza piu’ ovvia potrebbe apparire quella di affidare al medesimo Organismo notificato l’espletamento di una “consulenza tecnica”, che tuttavia non supererebbe il limite – già contestato alle verificazioni di “vecchio stampo” - di possibile parzialità in ragione delle conseguenze che un eventuale esito negativo dell’istruttoria potrebbe avere sulla sua stessa attività di Organismo notificato (per avere erroneamente certificato ab origine).
Si ritiene che in dette condizioni sia piu’ corretto “ritornare” alla verificazione, assegnando al Ministero tenuto alla vigilanza degli Enti notificati il suddetto compito, in tal modo potendo (detto Ministero) - in via immediata - verificare la regolarità delle certificazione in relazione agli oggetti in contestazione in giudizio, con conseguente ripercussioni in sede processuale e, contestualmente, anche assumere decisioni – in via mediata – relativamente alla piu’ generale immissione in commercio e circolazione di detti prodotti (con possibili sanzioni nei confronti del produttore).
Non solo, in ragione dell’esito di detta verifica il Ministero potrebbe assumere anche delle decisioni relativamente allo stesso Ente notificato che, non avendo svolto correttamente il suo compito, potrebbe essere ritenuto responsabile per culpa in vigilando.
In tal mondo i limiti “esterni” delle marcature CE rientrano comunque sempre nell’ambito di competenza dei Ministeri di riferimento.