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PRODOTTI FATTI FABBRICARE ALL'ESTERO E "MADE IN ITALY": quando, indicando l’origine, si rischia il falso (e il penale)
Cass. Pen., sez III, n. 41684/14, depositata il 7.10.14
Quand’è che, facendo fabbricare i miei prodotti all’estero, posso o non posso mettere il “made in Italy” ? (o comunque l’indicazione del paese di origine del fabbricante)
Fa il punto sulla questione, chiarendo, in particolare, quando non c’è reato, la recentissima sentenza della Corte di Cassazione, sez III penale, n. 41684/14, depositata qualche giorno fa.
Questo il caso oggetto della sentenza: un distributore italiano di articoli per la pesca commercializzava a proprio nome prodotti fabbricati in Cina. In particolare, sui prodotti, senza alcuna menzione al “made in” (non risultava, cioè, né un made in Italy, né un made in China), figurava solo il nome del distributore che, conseguentemente, veniva percepito erroneamente dal pubblico come l’effettivo fabbricante.
Il caso, qualificato nei precedenti giudizi come reato ex art. 517 c.p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci), approdava davanti alla Suprema Corte che ha ribadito cosa si intenda per “provenienza ed origine” dei prodotti industriali.
Intanto, afferma la Suprema Corte, per provenienza ed origine deve intendersi non già il fatto che un bene sia stato prodotto totalmente o parzialmente in una data zona geografica, bensì il fatto che il bene possa ricollegarsi ad un imprenditore, responsabile a titolo di fabbricante.
Detto ciò, la Corte ha risolto il caso distinguendo tra le seguenti ipotesi:
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Prodotto riportante, oltre all’indicazione della sede e del marchio dell’impresa, anche la dicitura “made in Italy” quando in realtà è stato prodotto altrove: qui ci si trova di fronte alla c.d. “informazione falsa” che si configura, appunto, quando si crea una falsa attestazione sul luogo di produzione. Ergo, c’è reato di vendita di prodotti con segni mendaci ex art. 517 c.p. ;
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Prodotto riportante nome, sede e marchio dell’impresa senza alcuna indicazione d’origine: qui, invece, ci si trova di fronte alla c.d. “informazione fallace” che non costituisce un’informazione falsa, ma è comunque idonea a creare confusione nel consumatore (il quale, cioè, potrebbe ricollegare l’origine del prodotto alla nazionalità e/o sede dell’imprenditore). In tal caso, non c’è reato, in mancanza di una aperta dichiarazione falsa.
La Cassazione ha ricollegato il caso in esame a quest’ultima ipotesi che, pur non ricadendo nel reato ex art. 517 c.p., comunque “non la passa liscia”: si rientra, infatti, nell’ipotesi di illecito amministrativo ex art. 4 comma 49 L. n. 350/2003, sanabile da parte dell’imprenditore con rettifica a proprie spese delle informazioni responsabili di creare confusione sull’origine delle merci.