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Lavoro: riflessioni sul divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo previsto dal Cura Italia e confermato dal Decreto Rilancio
Le normative emergenziali per far fronte alla pandemia hanno costretto il legislatore ad un generale blocco dei licenziamenti per ragioni oggettive.
Le aziende, infatti, dal 17 marzo 2020 sono impossibilitate a procedere a riduzioni del proprio personale, mediante licenziamenti individuali e collettivi, laddove i recessi dal rapporto di lavoro siano motivati da ragioni tecniche, organizzative, produttive ed economiche. La durata del blocco perdurerà – quantomeno – sino al 17 agosto 2020.
Il datore di lavoro, in altri termini, può licenziare solo se il dipendente, in esito ad un procedimento disciplinare sia stato protagonista di un fatto tanto grave (o notevolmente grave) da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. In altre parole, la causale del licenziamento deve essere imputabile al lavoratore e non al datore di lavoro.
In questo contesto, sono fatti salvi i licenziamenti dei lavoratori in prova, dei dirigenti, degli apprendisti e di quanti si ritrovano nell’impossibilità oggettiva e sopravvenuta di rendere la prestazione lavorativa.
Con questo strumento, pertanto, il legislatore ha ritenuto opportuno da un lato impedire dei licenziamenti in blocco del personale in esubero, e dall’altro ha deciso di “accollarsi” mediante le integrazioni salariali del reddito e ammortizzatori sociali, il costo dei dipendenti nel periodo in cui gli stessi sono sollevati dal rendere la prestazione a causa della pandemia.
Non è però “tutto oro quello che luccica”.
Ed infatti, il governo sembrerebbe intenzionato a prorogare questo blocco dei licenziamenti sino alla fine del 2020. Una manna dal cielo per i lavoratori? Dipende.
Innanzitutto, è necessario che a fronte della continuità con il blocco dei licenziamenti vi sia un corrispettivo stanziamento degli ammortizzatori sociali. In difetto il datore di lavoro si troverebbe a dover corrispondere la retribuzione, senza fruire della prestazione del lavoratore. Magari in un contesto di crisi economica come quella alle porte, quando alcuni settori sono letteralmente “in ginocchio”. Di fatto, si spalancherebbero le porte del Tribunale fallimentare. Anche laddove questo primo “scoglio” fosse soddisfatto, e cioè nell’ipotesi in cui il governo dia continuità alla Cassa Integrazione sino alla fine dell’anno, non vi è chi non veda come il quantum degli ammortizzatori sociali, CIGO su tutti, non può neppure essere paragonata in termini economici a quanto il lavoratore percepirebbe se conseguisse la disoccupazione (NAPSI). La questione non è di poco conto, vero è infatti che il lavoratore non potrebbe essere licenziato, e perderebbe la disoccupazione se si dimettesse.
Da ultimo i profili di costituzionalità del blocco dei licenziamenti. Non si dimentichi infatti che la libera iniziativa economica di cui all’art. 41 della nostra Costituzione, non può prevedere – se non per un ristretto e determinato periodo di tempo – una impossibilità a comminare i licenziamenti per ragioni oggettive se questo determina a carico aziendale un dissesto economico non giustificabile.