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ANCHE SE NON C'E MOBBING IL LAVORATORE PUO ESSERE RISARCITO
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAV., 5/11/2012
Pur non rientrando propriamente nella fattispecie di mobbing, comunque sia le pratiche vessatorie del datore di lavoro nei confronti del lavoratore possono costare molto care; è quanto ha stabilito di recente una pronuncia della Corte di Cassazione che merita commento. Una dipendente di una farmacia conveniva in giudizio il proprio titolare per sentirlo condannare al risarcimento dei danni subìti dalla medesima a causa del comportamento inadeguato tenuto nei suoi confronti dal proprio datore di lavoro; in particolare la ricorrente lamentava di essere stata ingiuriata, sbeffeggiata e vessata a tal punto da causarle un tentativo di suicidio; nei primi due gradi di giudizio, i giudici di merito ritenevano che le pratiche adottate dal datore di lavoro, pur individuate quali comportamenti riprovevoli, ciononostante non potevano andare a concretizzare un vero e proprio mobbing. Infatti, per giurisprudenza costante e consolidata, per individuarsi tale figura giurisprudenziale e dottrinale (a tutt'oggi ancora sconosciuta a livello normativo), le pratiche del datore di lavoro dovevano avere quattro caratteristiche principali: 1) continuità nel tempo; 2) soggettività datoriale o di colleganza da parte dell'agente; 3) volontà specifica di nuocere alla salute del lavoratore; 4) causazione di un danno alla salute fisica. Tali condizioni devono ricorrere contemporaneamente e, qualora ciò non accade (come in quello di specie) non può dunque configurare il cd. “mobbing”. Dello stesso avviso si è dimostrata anche la Suprema Corte, che tuttavia ha rinviato nuovamente la causa alla Corte d'Appello (in diversa composizione) in quanto il precedente Collegio non avrebbe correttamente provveduto a verificare se nel caso di specie, pur escludendo pratiche mobbizzanti, il datore di lavoro si fosse tuttavia attenuto allo scrupoloso rispetto dell'art. 2087 c.c.. Questa norma infatti, posta a garanzia della salute dei lavoratori nei luoghi ove questi esercitano la propria attività, doveva essere attentamente valutata nella vicenda sottoposta a giudizio e, se violata, doveva conseguentemente riconoscersi il risarcimento del danno subìto dalla lavoratrice. La pronuncia in commento va segnalata poiché, nei contenziosi in cui il lavoratore lamenta pratiche mobbizzanti, quando queste siano da escludersi – e ciò avviene spesso per la difficoltà di dar prova (in giudizio) della precisa volontà del datore di lavoro di nuocere alla sfera psichica del lavoratore – ciononostante può sempre essere individuata un'inadempienza contrattuale (quindi risarcibile) del datore di lavoro tutte le volte in cui, provato il danno subito, il lavoratore riesce a dimostrare comportamenti del datore di lavoro da soli idonei a non rispettare i dettami dell'art. 2087 c.c.. ed i danni da ciò provocati, secondo la Cassazione, devono essere risarciti ai sensi e nelle forme previste dalla legge.