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Contratti continuativi di collaborazione: prevale ancora la rigidità sui presupposti d’applicazione dell’istituto
Cons. St., V, 22/04/2020, n. 2553
I contratti continuativi di cooperazione (o anche comunemente detti “di collaborazione”) sono stati introdotti dal Decreto correttivo 56/2017 e vengono attualmente disciplinati dall’art. 105 comma lett c bis) del codice degli appalti.
Essi possono definirsi uno strumento alternativo alla diretta realizzazione, da parte dei soggetti affidatari di pubblici incanti, di alcune delle prestazioni oggetto dell’appalto, senza che le stesse possano integrare un subappalto e quindi essere sottoposti ai suoi limiti.
Tuttavia, in ragione dell’estrema sinteticità della disposizione di legge che li regola, la giurisprudenza ha tentato sin dalla loro introduzione di delimitarne i confini applicativi.
Nello specifico deve trattarsi di contratti stipulati in data antecedente a quella d’indizione della gara, ovvero da cui si possa desumere l’esistenza di un collegamento stabile e generale tra l’affidatario ed il “collaboratore”, dunque non destinato all’esclusivo svolgimento di un singolo appalto.
A ciò si aggiunge che le prestazioni contrattuali rese dal collaboratore devono essere svolte nei confronti dell’affidatario del contratto e non – come avviene per il subappalto – direttamente a favore della stessa amministrazione aggiudicatrice.
Inoltre, proprio al fine d’evitare una possibile elusione del principio della personalità dell’esecuzione dell’appalto, la giurisprudenza amministrativa maggioritaria ha stabilito che possono costituire oggetto dei contratti di cui all’art. 105 comma 3 lett. c), solamente le prestazioni c.d. “secondarie” o “accessorie” e non quelle che costituiscono l’oggetto principale dell’affidamento.
Anche la sentenza in commento decide di seguire il medesimo “indirizzo”, ribadendo che l’accertamento e la valutazione circa i predetti requisiti di “anteriorità”, “generalità”, “stabilità” e “continuatività” del contratto di collaborazione deve essere eseguita in maniere rigorosa.
Ciò proprio con la finalità di non eludere le disposizioni regolanti il subappalto.
Nel caso in esame, relativamente ad una gara avente ad oggetto “il servizio di smaltimento rifiuti biodegradabili di cucine e mense”, la ditta inizialmente risultata aggiudicataria dichiarava, ai fini della dimostrazione di uno dei requisiti di partecipazione (ovvero la disponibilità di un impianto di smaltimento e trattamento rifiuti), di avere sottoscritto in epoca anteriore a quella dell’indizione della procedura un apposito contratto di “cooperazione” con una società “collaboratrice”.
Tuttavia, all’esito dei controlli sul contratto allegato dall’aggiudicataria, la S.A. si avvedeva che in realtà il contratto sottoscritto tra le parti non poteva risultare idoneo alla dimostrazione dei requisiti di capacità tecnica e professionale.
Si trattava infatti di un contratto “destinato ad esaurire i suoi effetti all’esito della realizzazione di uno specifico impianto”, che quindi mancava degli specifici contenuti gestionali, continuativi e generali che erano stati espressamente dichiarati in gara dalla concorrente.
Le predette considerazioni della S.A. venivano condivise in toto sia dai giudici di primo grado, che dal Consiglio di Stato, secondo cui il contratto stipulato tra le parti non poteva affatto ritenersi conforme alle prescrizioni di cui all’art. 105, comma 3 lett c) del Codice dei contratti.
In conclusione, si conferma un atteggiamento a dir poco “rigido” nei confronti del predetto istituto che, allo stato attuale, non può che “scoraggiare” ulteriormente le imprese rispetto ad un suo futuro utilizzo.