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DIFFAMAZIONE SU UNA BACHECA FACEBOOK? La Cassazione conferma: pene piu lievi, non si tratta di stampa. Tutela minore per il “diffamato”? Forse no.

13/02/2017

Cass. pen., V°, Ud. 14/11/2016 depositata 1/02/2017 n. 4873

Con la pronuncia in esame, la Cassazione - in linea con quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza 31022/2015 - ribadisce come Facebook non sia inquadrabile nel concetto “di stampa”.

Le conseguenze, in tema di diffamazione, non sono di poco conto.

Entrambi i mezzi (pagine Facebook e testate giornalistiche) - stante la loro potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone - consentono la configurazione del reato di diffamazione nella forma aggravata (di qui la competenza del Tribunale e non del Giudice di Pace).

Ma se, come nel caso di specie, il messaggio denigratorio (con attribuzione di un fatto determinato) viene “postato” sulla bacheca, il reato deve ritenersi commesso - per richiamare il disposto normativo - non con il mezzo della stampa (punito sino a 6 anni di reclusione), ma con “altro mezzo di pubblicità” (da 6 mesi a 3 anni di reclusione).

Pene più lievi, quindi, se si tratta di social network (e reato a citazione diretta, senza il “filtro” dell’udienza preliminare).

Ma possono davvero tirare un sospiro di sollievo i “commentatori su Facebook”? Una lettura “superficiale” potrebbe indurre a pensare di sì.

Se si tratta di stampa infatti (e non di "altro mezzo di pubblicità"), le sanzioni sono più severe rispetto alle altre ipotesi.

Ma le garanzie costituzionali e ordinarie non cambiano.

Anzi: in caso di commissione del reato di diffamazione il giornale non può essere oggetto di sequestro preventivo (così la Cassazione un anno fa, sent. 25 febbraio 2016, n. 12536), garanzie recentemente estese  alle testate telematiche.

Al contrario, invece, i nuovi mezzi di manifestazione del pensiero destinati ad essere trasmessi in via telematica - quali forum, blog, newsgroup, mailing list…e social network come Facebook - possono subire il sequestro preventivo.

Del resto, lo si sa, la “cassa di risonanza” di Facebook sembra non avere precedenti e la persona offesa è oggi forse più garantita da un celere intervento inibitorio, che dallo spettro di una pena (più severa), ma lontana.