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Decreto dignità: è stato “smontato” davvero il Jobs Act?

03/07/2018

Bozza decreto "dignità", 2/07/2018

Il decreto dignità che il governo si appresta a licenziare è stato definito dal Ministro del Lavoro in aperta antitesi rispetto alla disciplina previgente, da tutti conosciuta come Jobs Act. Ma ciò è vero?

Tre sono le novità che interessano il comparto giuslavoristico:

i) aumento dell’indennizzo in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, fino al tetto delle 36 mensilità in luogo delle 24 precedenti,

ii) ritorno delle causali (ragioni organizzative, picco produttivo ecc...) nei contratti a tempo determinato dal primo rinnovo, e con durata massima del primo contratto “a-causale” non oltre un anno, cui si accompagnano, sempre in corso di proroghe, limitate ad un massimo di 4, aumenti contributivi abbastanza significativi,

iii) estensione della disciplina del lavoro subordinato al lavoro somministrato, e obbligo per le agenzie interinali di assumere direttamente dipendenti a tempo determinato per una percentuale non superiore al 20% del personale complessivamente impiegato nella società.

Se queste sono le modifiche che verranno confermate anche nella legge di conversione, a giudizio di chi scrive la “riforma” è “a luci ed ombre”.

Per la paventata maggior tutela dell’indennizzo da 24 a 36 mensilità a favore del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo da un rapporto di lavoro subordinato, sia sufficiente dire che la previsione di fatto non troverà pressoché applicazione, atteso che le 2 mensilità per ogni anno lavorato su cui il calcolo della tutela Jobs Act poggia, vedrebbe applicata la nuova tutela solo a fronte di un'anzianità lavorativa del dipendente con il medesimo datore di lavoro superiore ai 12 anni. Ovvero nel 8% dei casi secondo il Ministero del Lavoro nel 2016.

Ben altro impatto vi sarebbe stato in ipotesi di aumento, anche al solo fine di disincentivare un licenziamento palesemente illegittimo, la tutela minima per anno lavorato, portandola ad esempio a 4 mensilità per anno lavorato.

Se, tuttavia, non si assiste ad una modifica così radicale nelle tutele dei lavoratori a tempo indeterminato e assunti con il Jobs Act, è dirompente la differenza rispetto al passato della disciplina del contratto di lavoro a termine. Si torna di fatto al c.d. primo “decreto Poletti” con una a-causalità limitata solo al primo anno e al primo contratto, e esclusa invece  nelle proroghe (che vengono ridotte da 5 a 4 nei 36 mesi, e debbono essere giustificate). 

Su questo la riforma è incisiva e modifica sensibilmente il precedente regime, che di fatto era divenuto completamente liberalizzato. 

Infine la somministrazione e le agenzie interinali, che con l’applicazione rigida delle regole previste per il contratto a termine e l’impossibilità di avere tra i propri dipendenti più del 20% di contratti a tempo determinato.

Potrebbe quindi essere davvero “la finedel lavoro somministrato.

Tirando le somme, lo scrivente ritiene che per chi esce dal mercato del lavoro la riforma non apporti modifiche significative, poiché confinate ad un numero di dipendenti molto limitato. 

In fase di ingresso al mondo del lavoro però è indubitabile che una maggiore stabilizzazione del dipendente risulti palpabile, con un ricorso al lavoro a termine molto più gravoso per l’azienda. Se questo poi si concretizzerà poi in maggiori assunzioni a tempo indeterminato ce lo diranno le imprese, che invece avevano salutato la maggiore flessibilità del Jobs Act per i primi 36 mesi di rapporto con un singolo dipendente con grande entusiasmo.